Tre scioperi in quattro mesi sono quasi un record. Almeno per il mondo della scuola. Ma quando la misura è colma il lavoratore non ha altra soluzione che affidarsi alla protesta massima.
Per questo motivo, preso atto dell’inerzia che continua a contraddistinguere l’azione di chi amministra l’istruzione pubblica in Italia, Anief ha deciso di incrociare di nuovo le braccia, aderendo alla proclamazione dello sciopero generale nel Comparto Scuola indetta per il 2 e 3 maggio prossimi e già ratificata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento della Funzione Pubblica.
La protesta, alla quale parteciperà tutto il personale docente e ATA a tempo indeterminato e determinato, atipico e precario, segue le due già realizzate negli ultimi mesi: quella dell’8 gennaio, a ridosso della sentenza in Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, cui ha fatto seguito lo sciopero del 23 marzo nel giorno d’insediamento delle Camere, a cui si è aggiunto il malcontento per un rinnovo di contratto al ribasso, visto che dopo quasi dieci anni porterà nello stipendio la miseria di 435 euro di arretrati, a fronte di oltre 6mila spettanti, e un aumento netto che si colloca tra i 37 e i 52 euro, a seconda dell’anzianità di servizio, ma che non sarebbe dovuto andare al di sotto dei 300 euro.
“Tra il personale – ricorda Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal – la situazione di insofferenza ha raggiunto l’apice. Tra i precari, anche di lungo corso, non si arresterà fino a quando non saranno riaperte le Graduatorie ad esaurimento, trasformato tutto l’organico di fatto in organico di diritto, autorizzato un nuovo vero piano straordinario di 150mila assunzioni per docenti educatori ed Ata. Tutto il personale, invece, continua a chiedere ulteriori risorse per riportare gli stipendi al costo della vita”.
“Sono tanti i motivi che hanno portato il nostro sindacato a chiedere di scioperare, per ben tre volte in quattro mesi, consapevoli del fatto – continua Pacifico – che non possiamo essere ostaggio della politica. Anche perché chi è docente e Ata non può più fare il missionario. È chiamato, certamente, ad educare al diritto, al dovere e al lavoro. Ma ha anche il diritto di essere assunto dopo 36 mesi di lavoro. E per farlo, i precari devono essere immessi in ruolo dalle GaE, se in possesso di abilitazione, attraverso qualsiasi canale; occorre poi trasformare i quasi 100mila posti degli organici di fatto in cattedre vacanti, quindi da collocare in quelle di diritto. Allo stesso modo, riteniamo che sia giunta finalmente l’ora di allineare gli stipendi almeno all’aumento del costo della vita”.
Con lo sciopero di inizio maggio, il sindacato, dunque, cerca di andare oltre all’attuale impasse politica, chiedendo a gran voce, a chiunque andrà a comporre il nuovo Governo, che gli impegni assunti nel corso della campagna elettorale vangano rispettati: perché tutti i partiti politici, Pd incluso, hanno messo l’istruzione pubblica tra i comparti pubblici da rilanciare, modificando o cancellando la famigerata Legge 107 del 2015 che ha introdotto norme osteggiate dal 95 per cento del personale.
Parallelamente, occorre reperire dei finanziamenti per il nuovo contratto, visto che l’accordo raggiunto all’Aran ad inizio febbraio per quello 2016/18 ha prodotto aumenti insignificanti, dello 0,36% per il 2016, dell’1.09% per il 2017 e del 3,48% per quest’anno, che non tengono conto del tasso IPCA dal 2008 al 2016 aumentato rispettivamente del 8,52%, poi del 9,32 per il 2017 e dell’11,22 nell’anno in corso. Così oggi un insegnante italiano continua a guadagnare meno di 30 mila euro l’anno, mentre negli altri Paesi moderni si lotta per ben altre cifre: proprio in questi giorni, 20 mila docenti si sono astenuti dal fare lezione nel West Virginia, Oklahoma e Kentucky per chiedere aumenti di 10mila dollari, a fronte dei 6.100 già incassati, per incrementare stipendi che superano i 60 mila dollari.