Nel maggio 1860 con un piccolo esercito di volontari Giuseppe Garibaldi «scompaginò in breve tempo le forze governative e conquistò Palermo, e a luglio e agosto non fece che consolidare le proprie conquiste. A metà agosto, l’esercito attraversò lo Stretto di Messina; una volta sbarcato sul continente, risalì combattendo la penisola e all’inizio di settembre raggiunse Napoli, capitale del regno delle Due Sicilie».
E’ una breve sintesi della storica irlandese Lucy Riall, nel suo libro «La Rivolta. Bronte 1860», Editori Laterza (2012). Nessun riferimento ai troppi tradimenti degli alti ufficiali borbonici, che praticamente non hanno opposto resistenza alle truppe garibaldine, che potevano essere facilmente sconfitti, viste le forze in campo, almeno nelle prime settimane.
«Pochi altri episodi possono eguagliare il fascino avventuroso della storia dei ‘Mille’ di Garibaldi. In poco più di quattro mesi, un gruppo di volontari scarsamente addestrati pose fine a uno Stato oppressivo e ben difeso da truppe regolari». La Riall come altri cede a questo pesante giudizio sui borboni perché crede al rapporto di Lord William Gladstone, che fece circolare in tutta Europa, garantendo di aver visto le carceri borboniche piene di sudditi che non aspettavano altro di essere liberati. Soltanto che si tratta di una bufala, dato che lo stesso plenipotenziario inglese, qualche anno dopo ha smentito tutto, dichiarando di aver lucidamente mentito.
«Fu un’avventura epica, che fece sensazione sui mezzi d’informazione del tempo e secondo il corrispondente del ‘Times’, Nando Eber, fu ‘un tale trionfo da sembrare quasi troppo per un solo uomo». Anche qui si potrebbe obiettare che la stampa, soprattutto internazionale, era completamente schierata con Garibaldi, «creato» artificialmente nelle varie redazioni, come la stessa Riall ha ammesso in un altro suo studio.
Comunque sia l’epopea risorgimentale garibaldina è stata turbata dalla rivolta di Bronte che «guasta questa atmosfera di lieto fine. Nella cittadina siciliana la violenza cominciò nei giorni dell’arrivo di Garibaldi nell’isola. All’origine della vicenda c’erano lotte politiche e conflitti sociali, da cui erano sorte fazioni nemiche, ognuna delle quali rivendicava il controllo della città».
Nella notte del 1° agosto 1860, i contadini di Bronte avviarono la rivolta: «una folla ebbra e inferocita si scatenò per le strade, e cominciò a saccheggiare uffici e abitazioni gridando ‘Via l’Italia’». Scrive la Riall, «gli insorti dettero fuoco a tutto quello che incontrarono, e nei tre giorni successivi ogni forma di autorità venne travolta, in mezzo al fumo degli incendi. I proprietari vennero trascinati fuori dalle loro case, torturati, uccisi e gettati nel fuoco. Altri furono fatti marciare fino alla forca, poi uccisi e fatti a pezzi». I rapporti parlano di 10.000 insorti e di diciassette persone uccise, qualcuno addirittura ha definito un’«orgia di terrore».
La rivolta durò non più di sei giorni, dal 1 al 6 agosto, quando Nino Bixio, il più fidato generale garibaldino, arrivò in città alla testa di una colonna di soldati, incaricato da Garibaldi di porre fine agli scontri.
La rivolta di Bronte man mano ha acquisito uno speciale rilievo nel dibattito socio-politico italiano. Da una parte c’è chi ha applaudito all’azione repressiva di Bixio e chi invece sta dalla parte dei rivoltosi, a cominciare dalla novella di Giovanni Verga, Libertà (1883). «Libertà, scrive Riall, rappresenta infatti la disperazione dei contadini di ogni luogo, la cui rabbia trova espressione in un ‘pazzo carnevale’ di sangue, prima di essere travolti dalla terribile repressione».
Nel 1910, uno storico locale, Benedetto Radice pubblicò il primo approfondito studio sulla rivolta, basato su una scrupolosa ricerca d’archivio, intitolato «Nino Bixio a Bronte», per la Riall, ancora oggi rimane il punto di riferimento fondamentale per ogni storico. Peraltro anche lo studio di Lucy Riall, è una ricerca abbastanza seria. Lei stessa nella prefazione racconta il suo intenso lavoro, durato quattro anni di ricerche, di consultazione di archivi, musei, biblioteche e poi di confronti con altri colleghi storici, professori, che lei, come in altri libri, elenca e ringrazia. Del resto basta sfogliare il libro e costatare ben 60 pagine di note in riferimento ai testi consultati o citati.
Tuttavia per la studiosa irlandese, «la novella di Verga e la ricerca di Radice contribuirono a dar vita a una contro-narrazione della ‘favola armoniosa’ del Risorgimento italiano, di sicura presa sull’immaginazione e basata in modo apparentemente inconfutabile sui fatti storici».
Successivamente nel secondo dopoguerra, tra le varie letture sui fatti di Bronte, prende piede quella degli storici marxisti che «videro in Bronte la più evidente manifestazione di quel ‘terrore’ controrivoluzionario che rivelava l’atteggiamento conservatore dei democratici italiani e anticipava la repressione militare che sarebbe stata attuata in Italia meridionale nei primi anni dopo l’Unità». Pertanto per questi storici, «i contadini di Bronte apparivano vittime di una guerra di classe orchestrata da Bixio in combutta con i possidenti locali, e il capo del movimento contadino, Nicolò Lombardo, veniva conseguentemente elevato al rango di primo ‘Cristo comunista’». In pratica Bronte diventa il luogo simbolo dove i contadini meridionali sono traditi «da parte di troppi poteri: la Chiesa, i Borboni, i garibaldini pressati dalla Gran Bretagna, i Savoia, lo Stato italiano». Certamente Bronte rimane un importante luogo della memoria, e per tutti è «un simbolo dei fallimenti del Risorgimento e dei problemi del Mezzogiorno italiano».
Mentre nel 2011, in occasione del 150° anniversario dell’unificazione, sono venuti fuori diversi articoli di quotidiani, ma anche libri, destinati al grande pubblico, che hanno condannato la spedizione di Garibaldi, «facendo dell’episodio di Bronte uno strumento da utilizzare nell’odierno conflitto sul passato dell’Italia, nel quale il Sud (e il Regno delle Due Sicilie) diventa una vittima della violenza degli esponenti del movimento nazionale». Praticamente quello che è successo a Bronte è la prova che alla base dell’unificazione italiana «vi fu un brutale atto di conquista, e non una vicenda di liberazione politica». Qui la Riall fa esplicito riferimento a gruppi di Destra e a nostalgici neoborbonici, che «hanno sostituito al concetto di guerra di classe l’idea di una guerra civile fra il Nord e il Sud, sostenendo che i veri eventi dell’unificazione italiana e le sofferenze del Sud sono stati ‘volutamente rimossi nella retorica dell’unificazione’».
Chiaramente la Riall non accetta questa lettura della Storia, lei di formazione liberale, è propensa come tanti altri storici che l’unità del Paese andava fatta comunque, anche se poi a pagare le conseguenze sono stati i popoli meridionali. Tuttavia per la Riall, «il caso Bronte ha una portata che va oltre il tema del tradimento o della congiura del silenzio». C’erano troppi e intrigati problemi economici, a cominciare dalla presenza nel territorio del maggior proprietario terriero di Bronte. Si tratta di 1.600 ettari di terreno in mano a un nobile inglese, discendente di quell’ammiraglio Lord Horatio Nelson. Era sua la Ducea di Bronte, donata dal re borbonico nel 1799, come contributo per aver domato la rivoluzione Partenopea dei giacobini napoletani.
Nel I capitolo la scrittrice irlandese descrive dettagliatamente il territorio dove si situa la città di Bronte e quindi la Ducea. Non solo ma vengono descritte le caratteristiche sociali, culturali e religiose. Meglio non si poteva fare. Naturalmente l’Etna è il punto di riferimento di ogni ragionamento. Pertanto il testo della Riall per le accurate descrizioni del paesaggio può essere tranquillamente catalogato come un documento letterario paesaggistico, ma anche di letteratura non poetica. Scrive la Riall a proposito del vulcano: «l’effetto dell’Etna sul paesaggio corrisponde un analogo impatto sull’immaginazione umana». Anzi «alla fine del Settecento l’Etna, assieme al Vesuvio, era ormai al centro di quella che può essere considerata una vera e propria mania culturale». Sono in tanti i viaggiatori inglesi, tedeschi a descriverli con accenti romantici. Uno per tutti Sebastian Goethe, col suo Grand Tour in Italia. Mi piace riportare la citazione della compositrice di canzoni, Maude Valerie White, che è rimasta stregata del castello di Maniace: «un remoto monastero-castello, nella Sicilia delle leggende […] ai piedi del vulcano più famoso del mondo, in una zona cosparsa di lava, dove talvolta […] si doveva fare i conti con i briganti […] e i cui gloriosi boschi di faggi e di querce erano celebri al pari dei suoi aranceti e limoneti […] non era abbastanza per infiammare anche l’immaginazione più spenta?»
Tra l’altro il libro è arricchito di tavole illustrate e di tabelle.
Ma se i visitatori erano attratti dagli aspetti pittoreschi, in realtà per gli abitanti di Bronte la vita non era facile. Oltre alle eruzioni del vulcano, in quel periodo storico spesso si doveva affrontare la malaria. Le febbri malariche erano endemiche e imperversavano nella valle umida di Maniace, mietendo decine di vittime. Ma i problemi non erano solo questi, nella zona erano ricorrenti le manifestazioni di violenza. Bronte è stato «scosso da rivolte e da crisi politiche, una prima volta nel 1820, poi nel 1848, quindi nei famosi eventi del 1860, poi di nuovo negli anni Novanta. Reati come i furti di bestiame e le rapine a mano armata erano episodi costanti nelle zone rurali […]».
Riall ricorda che nel decennio successivo all’Unità, la presenza dei banditi sfuggiti alla giustizia, sui monti Nebrodi significava che nessuno poteva starsene al sicuro. La Riall evidenzia la reputazione che ha accompagnato Bronte come comunità violenta e bellicosa, e tra l’altro fa diverse citazioni per sostenere la sua tesi. La violenza si manifesta nel 1820 quando i brontesi i villaggi vicini di Troina e Maletto e poi con lo scontro con Randazzo. Anche se a volte sono degli stereotipi, infatti scrive: «può darsi anche che la fama di Bronte riproduca semplicemente i pregiudizi degli europei del Nord riguardo alle incontrollate passioni della vita rurale del Meridione». La Riall più avanti ritorna sull’argomento, ricordando i pregiudizi dominanti sulla Sicilia come luogo antiquato, un’isola rimasta ferma al passato. Ma sono apparenze: la Sicilia faceva parte di una rete commerciale globale.
Nonostante questo il territorio era un enorme potenziale di ricchezza: tanta acqua, tanto legname, e soprattutto tante terre coltivabili. La stessa Etna era anche fonte di ricchezza, si pensi alla tanta neve sulle pendici del vulcano, trasformata in ghiaccio e venduta agli abitanti delle città siciliane.
Tuttavia Bronte che alla fine della I guerra mondiale contava oltre 20.000 abitanti, alle ricchezze manifestava tanta povertà, la causa più importante era la squilibrata distribuzione della terra e della proprietà. I poveri erano i braccianti e mezzadri, ma anche un gran numero di pastori. Il risultato era «l’esistenza di una comunità profondamente divisa fra ricchi e poveri. Fra i primi, i duchi di Bronte erano di gran lunga i principali proprietari terrieri […]». Riall è ancora più precisa: «A Bronte la gerarchia esistente fra ricchi e poveri era evidente fin dal volto del centro urbano. In questa comunità le famiglie vivevano letteralmente una sopra l’altra, tanto ripide e affollate erano le strade […]».
Questa netta separazione socio-culturale fra ricchi e poveri, fra privilegio e miseria, era poi accentuata dagli elevati tassi di analfabetismo. Per quanto riguarda la Chiesa, era molto presente, sia come edifici che come personale. Molte le chiese e i conventi. Il clero locale contribuì alla creazione di una scuola elementare per i bambini poveri e soprattutto istituì un importante collegio (il Real Collegio Capizzi) destinato all’istruzione dei figli dell’èlite locale.
Per comprendere come si è arrivati alla rivolta, ai fatti di Bronte dell’agosto del 1860, Lucy Riall dal II al IV capitolo entra nell’intrigato processo della storia amministrativa del territorio Brontese, partendo dal dono del territorio della Ducea che i borboni hanno fatto all’ammiraglio Nelson nel 1799. Qui iniziano gli intrecci sociali, economici e politici. Tra proprietari di terre, contadini, fittaioli, pastori. E poi le intrigate storie degli eredi di Nelson, le continue tensioni di questi nobili inglesi con le confinanti popolazioni. In questi capitoli, la scrittrice irlandese si dilunga nell’estenuante lotta, nella contesa giuridica prima tra l’Ospedale Nuovo di Palermo con i brontesi e dopo con la stessa Ducea.
«Schiere di avvocati – scrive la Riall – passarono al setaccio gli archivi nel tentativo di dimostrare che l’ospedale, imponendo i propri diritti feudali, aveva violato l’autonomia di cui la città aveva a lungo goduto nella sua storia». Quando subentrarono gli inglesi con la Ducea donata a Nelson, quelli dell’Ospedale furono contenti di cedere la proprietà in cambio di una rendita annua.
La storia è complicata, si racconta di innumerevoli cause, di conflitti personali e familiari. Di lotte contro l’oppressione feudale, l’usurpazione delle proprietà, di diritti alle terre, ai boschi. Per tre decenni per accertare i diritti sui territori si tenne impegnati esperti, periti e poi le innumerevoli spese legali. «Per quanto sia gli inglesi sia i brontesi venissero gradualmente trasformati da tale contatto, il principale effetto della loro vita in comune fu quello di accentuare la loro divisione in due campi reciprocamente ostili».
Pertanto per la Riall, «non dovrebbe sorprendere che gli inglesi detestassero l’area o comunque la considerassero un mondo arretrato, non civilizzato, né d’altra parte possiamo stupirci che i brontesi trattassero la loro comparsa alla stregua di un’indesiderata invasione straniera». Tuttavia la scrittrice irlandese è convinta che i problemi di Bronte sono quelli tipici della zona del latifondo meridionale.
Trattando della rivoluzione del 1848 in Sicilia, nel capitolo V, l’autrice de La Rivolta, scrive che a prima vista si è tentati di individuare la causa delle vicende di Bronte nella lotta tra le fazioni degli inglesi e dei brontesi. «Sembrerebbe la spiegazione più plausibile», scrive Riall. Certamente c’era in atto uno scontro, difficile negarlo, la ducea non era animata da amicizia nei confronti dei contadini. E queste due fazioni si diedero molto da fare per accentuare la spaccatura.
I rapporti degli amministratori inglesi con i brontesi, comunque, non erano idilliaci. Si nota facilmente nelle «lettere scritte al duca sono permeate di un misto di paura, odio e disprezzo, sentimenti ampiamente ricambiati dai brontesi. Non poche erano le denunce relative alle minacce subite da parte dei cittadini del comune catanese».
Il 7 luglio del 1825, ad esempio, Mr. Thovez scriveva al duca William Nelson informandolo «dei grandi saccheggi commessi dai brontesi nei boschi». Anche il procuratore Barrett – che amministrò la ducea per un anno (1817-1818) – fu costretto più volte ad allontanarsi dal comune per mettersi in salvo assieme alla sua famiglia. In una sua lettera al duca del 1818, faceva riferimento ad una «cospirazione volta alla distruzione mia e della mia famiglia, di un assalto durante la notte» e che lo spingeva a mettersi in contatto con Palermo visto che «non mi aspettavo assistenza a Bronte».
La paura era il sentimento più ricorrente nei confronti del popolo brontese. Ecco cos’altro diceva Thovez al duca: «è orribile essere obbligati a vivere tra selvaggi perché la vita di uno non è mai al sicuro tra loro».«Ciò nonostante, l’asprezza della lotta fra la ducea e i brontesi e il linguaggio di classe che essa generò nascondono una scomoda realtà. In effetti la questione era più complessa: la ducea si trovava coinvolta in uno scontro con l’élite locale, ma a Bronte era in atto anche una lotta tra famiglie rivali, e alcune di esse sobillarono i contadini, che erano fortemente determinati ad affermare i loro diritti di proprietà sulle terre. Era poi in corso un conflitto sull’uso della terra, che vedeva contrapporsi i coltivatori ai pastori e a quanti vivevano sfruttando le risorse dei boschi. A Bronte, i conflitti personali, di fazione, economici e di classe esplosero tutti nello stesso momento: la lotta fra i britannici e il comune continuò, mentre si determinò un nuovo conflitto interno all’amministrazione locale, che coinvolse almeno un esponente britannico».
La Riall insiste, quello che successe a Bronte il 1 agosto 1860: «fu una tragedia, ma la colpa di quello che avvenne non fu né di Bixio né degli inglesi». Nel corso degli eventi di agosto, «gli inglesi di Bronte furono spettatori […] Un ruolo molto più centrale per la lotta tra le fazioni ebbe la rivalità per il controllo dell’amministrazione tra due gruppi locali, uno dei quali capeggiato da Meli, l’altro da Lombardo». Secondo Riall, «dietro i conflitti di Bronte vi fu più probabilmente la battaglia tra le due fazioni cittadine per gli impieghi, le proprietà e le posizioni politicamente influenti, e non lo scontro tra potere feudale straniero e una popolazione locale inquieta». Infatti, il vero obiettivo delle violenze furono notai, contabili, esattori di canoni d’affitto, proprietari terrieri di Bronte, ossia quel potere cittadino che, pur dichiarandosi liberale, alleato di Garibaldi e favorevole alle terre per tutti, in realtà tutelava esclusivamente il proprio interesse patrimoniale e le proprie ambizioni di potere.
La violenza era stata provocata da «antichi rancori – si legge nelle Relazioni – contro una casta di ambiziosi civili, i quali avevano utilizzato la gestione degli affari pubblici per trarne vantaggi personali: Bronte aspettava che il nuovo Governo, li liberasse da questi esseri, ma al vederli di nuovo tracotanti, irruppe il popolo e successero gli eccidi».
Sostanzialmente quello che è successo a Bronte nel 1860, anticipò il futuro dell’Italia unita. Anche se per la Riall le molte deficienze economiche riscontrate col nuovo Governo italiano erano presenti anche prima. Certamente i moderati sottovalutarono la gravità della crisi delle Due Sicilie. A cominciare da Cavour non sapeva nulla del Sud. D. Mack Smith, ha scritto: «voler agire su un paese senza averlo neppure veduto, è questo un problema che nessun gran talento basta a risolvere». La Riall scrive che il Governo liberale nel trattare la popolazione si mostrò in modo autoritario, io direi repressivo, visto l’attuazione della Legge Pica, i 120.000 uomini mandati al Sud per reprimere il cosiddetto brigantaggio.
Costantino Nigra, segretario generale del Governatore delle province meridionali, nel 1861, scriveva a Cavour: «Ecco in qual bolgia mi ha mandato». E poi elencava i nemici: «il clero nemico; i garibaldini malcontenti, irritati, affamati […] l’aristocrazia, avversa […]il popolo […] instabile, ozioso e ignorante, pochi carabinieri e poca forza nelle provincie e un’amministrazione corrottissima da capo a fondo». Massimo D’Azeglio rincarava, nel Sud, «ci vogliono, e sembra che ciò non basti per contenere il regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti e non briganti, niuno vuol saperne […] so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni, e che al di là sono necessari». La questione era che mancava il consenso della popolazione meridionale. Pertanto per la Riall, com’era avvenuto per Bronte nel 1860, il ricorso all’esercito per controllare le campagne meridionali, non rappresentava certamente «una dimostrazione di forza militare, quanto semmai un’ammissione di debolezza politica». Il Paese era spaccato in due, così Carlo Farini da Napoli, poteva gridare: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa e Affrica: i beduini, a riscontro di questi cafoni, son fior di virtù civile». E poi ancora nel 1863, Bixio scrisse: «[…] Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Affrica a farsi civili». Infine D’Azeglio affermava che la prospettiva di «una fusione coi napoletani», sarebbe stato «come mettersi a letto con un vaiuoloso».
Ritornando a Bronte e concludo, «quello che era avvenuto a Bronte negli anni Quaranta e Cinquanta si ripetè dopo l’Unità e anche in seguito. Come in passato, l’élite locale approfittò della legislazione governativa mirante a favorire i contadini per rafforzare le sue proprietà o confermare gli affitti di cui già usufruiva […] Ovunque, in Sicilia, coloro che avevano avuto incarichi pubblici sotto i Borboni rimasero all’interno dell’amministrazione governativa».
Peraltro nell’inchiesta dei due politici toscani, Franchetti e Sonnino si dimostrava che le riforme agrarie non avevano prodotto miglioramenti sostanziali per i contadini. «La squilibrata distribuzione della proprietà, affermavano gli autori, era ancora la principale causa della povertà e del malcontento popolare nella regione, e la base del diffuso sistema di potere imperniato sul clientelismo politico e sulla corruzione».
Domenico Bonvegna