Dal Governo e dal Miur continuano a negarlo spudoratamente, ma il Documento Programmatico di Bilancio 2019, prologo della manovra economica di fine anno solare, ora sotto la lente dell’Unione Europea, contiene i temuti tagli all’Istruzione pubblica: la spesa per il settore della formazione, in rapporto al Pil, “si attesta in media sul 3,6% nel quinquennio 2014-2018 (3,5% nel 2019)”. Le intenzioni, quindi, sono quelle di ridurre i finanziamenti, già molto al di sotto della media Ue, di un ulteriore 0,1%.
Il dato non è sfuggito alla stampa: Il Corriere della Sera ricorda che un anno fa, l’allora ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli “aveva portato a casa la stabilizzazione di oltre 2.100 precari impegnati negli enti di ricerca, l’aumento del Fondo integrativo statale per la concessione di studio universitario, 5 milioni per le borse per i dottorati di ricerca, i fondi per la progressione dello stipendio dei prof universitari, l’integrazione del fondo per le Accademie musicali e l’incremento per gli ITS. Non era il record di risorse che da anni gli esperti auspicano per rilanciare il settore e portare i nostri studenti al pari con quelli degli altri Paesi Cose (dove continuano a superarci nei test di italiano e matematica), ma almeno si manteneva una direzione, che era quella tenuta negli anni precedenti, di leggera crescita”. Invece, oggi “i segnali che arrivano non sono per niente incoraggianti”.
Non si comprende perché anziché incrementare la spesa, si debba ora addirittura ridurre. Negando anche che ciò avvenga. Quanto sta avvenendo non può incarnare quel “cambiamento” che l’attuale Esecutivo continua ad associare al proprio operato. I numeri, pubblicati la scorsa estate, sono impietosi. In base agli ultimi dati Eurostat – riferiti al 2015 e calcolati sul totale di risorse destinate al segmento “education” dai governi nel perimetro dell’Unione -, il nostro Paese investe per istruire i propri cittadini appena il 4% del Pil, attestandosi abbondantemente sotto la media Ue (4,9%) e rappresenta poco più della metà di quanto investito da Danimarca (7%), Svezia (6,5%) e Belgio (6,4%).
Peggio dell’Italia fanno solo la Romania (3,1%) e l’Irlanda (3,7%), mentre la Germania resta su valori percentuali apparentemente poco superiori ai nostri (4,3%), salvo poi staccarsi in modo sensibile quando si inquadrano i valori assoluti: il governo tedesco mette sul piatto quasi il doppio di noi, 127,4 miliardi di euro contro i 65,1 miliardi dell’Italia. La nostra media di sovvenzionamento dell’Istruzione supera di poco la spesa totale dei privati, pari al 3% del Pil secondo le ultime rilevazioni Ocse. Complessivamente, gli stati membri spendono un totale di 716 miliardi di euro sul settore: una quota pari al 4,9% del Pil continentale e la quarta voce di spese dopo protezione sociale (19,2%), salute (7,2%) e servizi pubblici (6,2%).
L’investimento per l’Istruzione è così misera che qualche mese fa l’ex Commissario alla spendingreview italiana, Carlo Cottarelli, ha ammesso di non avere “mai proposto tagli alla Scuola, perché per la pubblica istruzione e la cultura non spendiamo affatto troppo rispetto al prodotto interno lordo”. L’esperto di economia, del resto, sa bene che negli ultimi dieci anni mentre non sono stati toccati i costi della politica, delle società partecipate e delle consulenze, abbiamo assistito a ridimensionamenti importanti in settori chiave del nostro welfare. Con la Scuola a fare da portabandiera, visto che ha dovuto subire il 75% dei tagli dell’intera amministrazione pubblica.
Come si è arrivati a questo è presto detto: passando per le varie manovre Berlusconi, il cui apice si è toccato nella gestione Tremonti-Gelmini, attraverso la quale si è ridotto un sesto del personale e l’orario delle lezioni, di un terzo il numero degli istituti e dei presidi, con il precariato schizzato oltre il 15% dei posti in organico in modo da risparmiare su scatti di anzianità, ricostruzioni di carriera e mesi estivi, con il ricorso massiccio al finto organico di fatto, addirittura incentivato dai successivi governi tecnici e di centro-sinistra. Per l’Università, infine, vale per tutti la riduzione progressiva dei finanziamenti, l’eliminazione della figura del ricercatore e il blocco perenne del turn-over.
Anche la consistenza di personale va inquadrata in un saldo decisamente negativo: pochi mesi fa l’Aran ha pubblicato un accurato report sull’evoluzione numerica degli “Occupati nella pubblica amministrazione”, da cui risulta che negli ultimi tre lustri sono stati tagliati ben 35 mila dipendenti pubblici. E quelli che ci sono vengono malpagati. Il rapporto Eurydice, pubblicato pochi giorni fa, ci ha detto che gli stipendi dei nostri docenti sono i più bassi dopo i Paesi dell’Est: a fine carriera in Olanda, Austria e Germania, gli insegnanti prendono circa il doppio dei nostri insegnanti, mentre in Svizzera e a Lussemburgo i compensi annui si aggirano sulle 150 mila euro, una cifra che nella PA italiana tocca solo ai giudici. E lo stesso Def 2019 ci dice che nella migliore delle ipotesi il governo ha intenzione di evitare la beffa delle riduzione stipendiali, coprendo solo quella perequazione venutasi a determinare la scorsa primavera perché mancavano i fondi necessari ad assegnare ai dipendenti pubblici, tra cui circa 600 mila docenti e Ata con stipendi sotto i 25-26 mila euro, l’intero pacchetto da 85 euro medi lordi di aumento dopo quasi dieci anni di blocco contrattuale.
Secondo Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief e segretario confederale Cisal, siamo al paradosso: “Mentre dal Governo si continua a parlare di aumento gli stipendi degli insegnanti, per equipararli a quelli dei colleghi europei, e il Ministro dell’Istruzione tenta di tranquillizzare tutti sostenendo che non si stanno effettuando tagli ma risparmi, l’Italia si ritrova ad accusare un ulteriore arretramento nei finanziamenti del settore più importante ai fini della crescita sociale e, nel lungo periodo, anche economica: quella della formazione dei suoi cittadini”.
Solo qualche giorno fa, durante il convegno “Cultura 2030”, organizzato dal M5S il 9 e 10 ottobre a Roma, il professore Domenico De Masi, docente emerito di Sociologia del Lavoro alla Sapienza di Roma, ha detto che a livello di laureati l’Italia ha una percentuale che si aggira sul 20% e ciò rappresenta una situazione di sottosviluppo culturale più o meno pari a quella del Camerun. Basta ricordare, ha sottolineato il sociologo, che i laureati in Europa raggiungono il 39% e in California il 63%, con l’indice di ignoranza degli italiani al dodicesimo posto su 196 Paesi inclusi nella classifica. Non va meglio per le tasse richieste agli studenti che nell’ultimo periodo hanno raggiunto cifre improponibili. Mentre le borse di studio rivolte agli studenti meritevoli o non abbienti sono ridotte ai minimi termini, tanto che in Germania, grazie ad un finanziamento annuo di due miliardi di euro, risultano mediamente dieci volte più alte. Come se non bastasse, in Italia il finanziamento pubblico all’università è stato ridotto del 17%. Proprio mentre i professori che vanno in pensione non sono sostituiti e i ricercatori diventano una figura in via di estinzione.
“Il vero problema – conclude Marcello Pacifico – è che in Italia per studiare servono troppi soldi, perché si parla tanto di merito ma poi di fatto non viene adeguatamente incentivato. Infine, siamo convinti che non si può spacciare una ‘partita di giro’ con soldi ricavati dallo stesso comparto, come se fosse un finanziamento vero. Si tratta di giochini da prima Repubblica. Chi vuole cambiare il corso della storia è chiamato ad una sfida difficile, ma il tempo degli spot è finito”.