Tutte le istituzioni oggi si servono di questi mezzi mediatici. Anche la Chiesa, sulla quale ci vogliamo soffermare, ha negli ultimi anni conseguito un significativo sodalizio con le moderne tecnologie.
di ANDREA FILLORAMO
I social network sono diventati l’ambiente virtuale più frequentato al mondo: Facebook, WhatsApp, Instagram, LinkedIn, Twitter, sono reti sociali che svolgono un ruolo cruciale nel determinare le modalità di risoluzione di problemi e i sistemi di gestione delle organizzazioni, nonché le possibilità dei singoli individui di raggiungere degli obiettivi.
Pochi ormai ne fanno a meno; molti sono quelli che per un certo periodo di tempo se ne sono serviti; pochi si sono allontanati dai social perché convinti di perderci troppo tempo; pochissimi non hanno mai avuto un account semplicemente perché non ne hanno sentito il bisogno; solo, infine, qualcuno è scappato a gambe levate a causa di una privacy che diventa effimera sulle piattaforme della socializzazione virtuale.
Con poche parole ho cercato di evidenziare i pregi del buon uso degli strumenti che la tecnologia mette a nostra disposizione per comunicare ma anche quelli che possono diventare i rischi, i pericoli impliciti in tutti i network di cui ci possiamo servire per renderci vicini agli altri.
Tutte le istituzioni oggi si servono di questi mezzi mediatici. Anche la Chiesa, sulla quale ci vogliamo soffermare, ha negli ultimi anni conseguito un significativo sodalizio con le moderne tecnologie.
L’immagine di una Chiesa, ancorata a tradizioni e rituali millenari, sta lasciando spazio ad una Chiesa molto più al passo coi tempi, che non vuole restare indietro, mentre il resto del mondo avanza in un’unica direzione: quella del progresso tecnologico.
Papa Francesco sembra essere il perno su cui sta ruotando il cambiamento.
E i preti? Si pensa che almeno il 20% dei parroci sia iscritto a Facebook ma una percentuale molto più alta sicuramente è attiva nella Rete.
Come accade per tutti gli altri utenti, i contenuti che questi preti veicolano sono molto diversi a seconda dell’intenzione con la quale ciascuno di essi decide di segnare la propria presenza: c’è, infatti, chi interpreta il ministero in senso esclusivamente pastorale, c’è chi attribuisce ai momenti trascorsi online il ruolo dello stacco ricreativo, c’è chi, chattando, dimentica di essere prete e, quindi, coltiva rapporti personali che possono essere anche molto lontani oppure addirittura opposti al significato della missione apostolica.
C’è, infine, qualche prete, come è successo a Messina, che ha creato un “gruppo chiuso” in Facebook in cui esprime ammirazione nei confronti di don Minutella sacerdote palermitano scomunicato di recente perché colpevole di eresia. E nei post che pubblica, semina menzogne, calunnie e veleno nelle fila del clero e nei fedeli che imbarazzati lo seguono. Egli, inoltre, in alcuni post che mi sono giunti in copia di recente, critica pesantemente il suo arcivescovo Mons. Giovanni Accolla, che cerca in tutte le maniere di essere vicino ai suoi preti e di aiutarli nelle loro difficoltà e denunzia come espressioni del più bieco carrierismo le sue recenti nomine dei vicari episcopali, giudicandoli arrivisti e indegni, quindi, di quella funzione.
Leggendo quei post su Facebook, mi sono convinto che dalla Rete può venire di tutto, il bene e il male: essa è amorale e che solo con la pazienza si possono risolvere i problemi creati da chi in malafede sparge, attraverso la Rete, fango attorno. La migliore reazione a chi scopriamo che attraverso i social calunnia – è bene che si dica a voce alta – è il silenzio, come se il calunniatore non ci fosse. Scrive Kierkegaard: “Lo stato attuale del mondo – e in effetti tutto ciò che è vivente – è ammalato. Se fossi un medico e mi venisse chiesto un consiglio, direi: Create il silenzio! Conducete gli uomini al silenzio!”.