È noto che molti giovani abbandonano la fede. Quali siano le motivazioni che spingono una certa parte delle nuove generazioni a non seguire quella che è stata la religione dei padri è difficile dirlo, tuttavia delle ipotesi si possono fare. Un fattore importante che, a mio parere, influenza i giovani di oggi è il contesto culturale in cui essi vivono.
di ANDREA FILLORAMO
È noto che molti giovani abbandonano la fede. Quali siano le motivazioni che spingono una certa parte delle nuove generazioni a non seguire quella che è stata la religione dei padri è difficile dirlo, tuttavia delle ipotesi si possono fare. Un fattore importante che, a mio parere, influenza i giovani di oggi è il contesto culturale in cui essi vivono.
Nessun’altra generazione, ha vissuto, infatti, così profondi e rapidi mutamenti. Nel corso degli ultimi decenni ci sono stati enormi cambiamenti nei mass media, nell’economia, nella politica, nei costumi e nell’etica sociale e sessuale, nonché nelle conoscenze scientifiche e tecnologiche.
L’affermarsi del mondo digitale ha rivoluzionato, poi, il modo in cui i giovani comunicano tra loro e ottengono informazioni. Ciò ha portato a cambiamenti significativi nel modo in cui essi si relazionano, lavorano e pensano, con una riduzione della capacità critica di valutazione. C’è da tener conto ancora dei molti adolescenti e giovani che soffrono di isolamento nelle loro famiglie, nelle comunità e nelle istituzioni. L’alto numero di separazioni e divorzi e di nascite fuori dal matrimonio, fa sì, inoltre, che siano sempre di più quelli cresciuti in ambiti non tradizionali cioè in contesti dove la struttura familiare era carente. Tutto ciò ha portato ad un grado molto alto di complessità, fluidità e incertezza nella società e ha indotto molti giovani e non giovani, a “dubitare di tutto”, convinti che dal “dubbio” derivi la necessità di analisi e conseguente elaborazione da cui, volenti o nolenti, discenda una scelta e l’inevitabile assunzione di responsabilità. Questo del resto sembra l’atteggiamento dell’uomo moderno, che fa scrivere a Dario Fo: “In tutta la mia vita non ho mai scritto niente per divertire e basta. Ho sempre cercato di mettere dentro i miei testi quella crepa capace di mandare in crisi le certezze, di mettere in forse le opinioni, di suscitare indignazione, di aprire un po’ le teste”.
Questo scetticismo, nei giovani, col tempo si trasforma in diffidenza nei confronti di qualunque autorità e di qualunque istituzione che nel passato ha modellato la società. In questo contesto non è da sottovalutare il suicidio dei giovani che, come leggo sul Mattino di Napoli “ogni dodici mesi falcia in Italia la vita di quasi 500 ragazzi. Sono 4mila gli italiani che si uccidono ogni anno. E di questi, dodici su cento hanno tra i 15 e i 25 anni. I dati dell’Oms mettono i brividi: il suicidio è la seconda causa di morte tra i nostri under 20 dopo gli incidenti stradali. Ne ammazza di più il male di vivere che la droga.
Ma sono tanti, tre volte tanto, i ragazzi che vengono riacciuffati per i capelli: ogni anno sono tra i 1000 e i 1500 quelli che tentano l’estremo gesto salvati in extremis dalla fredda contabilità del dolore. Numeri certamente sottostimati, sottolineano gli esperti. «I casi noti sono probabilmente risibili rispetto alla realtà, molti episodi vengono tenuti nascosti a causa dell’alone di vergogna che li circonda», sottolinea lo psicologo Gustavo Pietropolli Charmet. “Se questo è lo scenario, davvero sconvolgente, che è sotto i nostri occhi, ci chiediamo: siamo sicuri che la Chiesa disponga di soluzioni pastorali davvero efficaci per aiutare quanti si sono allontanati o si allontaneranno dal percorso di fede che li condurrà all’età adulta e farà quindi superare la crisi in cui rischiano di cadere? Sono sufficienti le catechesi, le omelie, i riti, le processioni, le liturgie e altri strumenti devozionali per far risalire la china della fede?”.
A queste domande dovrebbero rispondere i 35.000 preti distribuiti in tutto il territorio nazionale che svolgono il ministero nelle parrocchie, i molti religiosi che oltre il clero secolare, esercitano la pastorale nelle comunità parrocchiali: ad essi l’Istituto per il sostentamento del clero garantisce una dignitosa remunerazione tratta dalla fiscalità generale e, quindi, dai cittadini cattolici attraverso il 730, che, per questo, si aspettano che i preti aiutino i loro figli ad uscire da questa situazione che li allontana dalla fede. E ancora: cosa fanno tutti gli insegnanti di Religione distribuiti in tutte le scuole italiane, dalle scuole dell’infanzia ai Licei, per i quali lo Stato spende un miliardo e venticinque milioni l’anno?
Essi accompagnano, quindi, per più di dieci anni i nostri ragazzi in un itinerario di fede, che non dovrebbe dare spazio alla dispersione e all’abbandono che constatiamo. Se ciò dovesse avvenire occorrerebbe mettere in discussione lo stesso insegnamento da reputare forse inutile. Non voglio essere frainteso! Sicuramente molti sono i parroci e i docenti di religione che rispondono come possono alla loro vocazione, ma mi chiedo: sono essi attrezzati culturalmente? Si rendono conto che per tanti giovani la Chiesa è vista come un ostacolo alla creatività e all’auto-espressione? Cosa fanno per far superare questo ostacolo? Sanno che i giovani non vogliono sentir parlare di apparizioni, miracoli e segni dal cielo?
Che si annoiano facilmente a causa di insegnamenti superficiali fatti di luoghi comuni e di racconti fiabeschi? Che un gran numero di loro sono inclini a credere che tutto ciò che ha a che fare con la liturgia e l’insegnamento catechistico manchi di vitalità e freschezza per non dire che sono addirittura deprimenti? E’ da chiedersi ancora se i parroci e i docenti di religione, sanno che molti ragazzi non accettano che la Chiesa imponga regole repressive per quanto riguarda la morale sessuale; che le attuali tendenze culturali che enfatizzano la tolleranza e l’accettazione di altri valori si scontrano con la pretesa del cattolicesimo di possedere tutte le verità universali.
Diciamola tutta: una fede superficiale lascia gli adolescenti e i giovani con un elenco di credenze vaghe, spesso mitiche, irreali e fiabesche e un’incoerenza tra la fede e la loro vita quotidiana e per loro, quindi, abbandonare la fede può diventare una necessità. Scrive Paola Bignardi: “ad un modello pastorale tutto orientato a comunicare una visione della vita o a proporre una serie di impegni – andrebbe oggi sostituito un modello impostato sul dialogo: un dialogo vero, che è scambio, ascolto profondo, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento a collocare le ragioni della fede dentro percorsi personali, originali ed irripetibili. […] La Chiesa, se non vuole perdere i giovani, deve riscoprire il valore delle relazioni che fanno sentire importanti, che generano interesse per le esperienze perché passano attraverso le persone, i legami, la valorizzazione di ciascuno”.