Diritti & doveri cristiani: non si può affrontare il problema dell’emigrazione se non si conosce la storia del continente africano e dell’Europa.
di ANDREA FILLORAMO
Ritengo che i nostri politici che saranno chiamati ancora una volta a legiferare sul “fiume in piena” dei migranti che giungono sulle sponde delle nostre coste, provenienti dalla vicina Africa, prima di decidere sull’accogliere o meno quanti fuggono dalla fame e della guerra o di quelli che, per motivi vari, lasciano la propria terra, quanti, magari ingannati dai “venditori di carne umana”, sfidano il mare e giungono da noi, sui porti “chiusi” o “aperti”, di esaminare con molta attenzione il fenomeno emigrazione in tutte le sue dimensioni.
Compito non facile ma possibile per chi crede ancora che la politica possa essere una cosa seria. Non si può affrontare il problema dell’emigrazione se non si conosce la storia del continente africano e dell’Europa.
Essi consultino l’affollatissima BIBLIOGRAFIA che esamina il problema che non è nuovo e non è soltanto italiano; leggano quanto scrive Abdelmalek Sayad, nel suo studio sulla migrazione (1999), che definisce l’emigrazione come un “fatto sociale totale”, che interroga insieme “le condizioni di partenza, i percorsi di vita dei migranti, le responsabilità e le scelte della società d’arrivo”. Solo la valutazione dell’insieme di questi elementi è in grado di restituire un’esperienza migratoria, il cui tratto unificante – nella prospettiva dei protagonisti – è ravvisabile in quella condizione che il sociologo algerino definisce come una “doppia assenza”: quella dal paese in cui l’emigrato è nato (in cui lascia un posto vuoto, come nella difficile realtà delle famiglie transnazionali) e quella del paese in cui l’immigrato si trova a vivere (spesso, escluso).
Quest’ottica – egli dice – restituisce la realtà del migrare come esperienza di un’esistenza “fuori-luogo”, in cui il soggetto vive una vera e propria “caduta sociale”: egli è infatti costretto a ricominciare da zero, per conquistare, rinegoziandolo, il suo spazio sociale all’interno della società in arrivo.
Lo spazio vitale abbandonato è l’Africa, un continente che è stato totalmente depredato dagli europei. Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltano, niobium, tantalum e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti.
Questa sicuramente è la causa prima della grande emigrazione africana alla quale oggi assistiamo.
Gli italiani non possono e non devono rimanere indifferenti di fronte a questo grande problema. Essi – lo ricordino- sono un popolo di migrati e, per questo è lecito fare, un parallelismo del suo passato con quel che avviene oggi a proposito di quanti emigrano dall’Africa, anche se l’immigrazione in Italia, lungi dal portare alcuno dei benefici che invece hanno caratterizzato l’emigrazione degli Italiani all’estero, è stata subita o pianificata da una classe politica scellerata e come minimo completamente ignorante delle dinamiche migratorie.
Un “ assaggio storico” sicuramente fa bene a tutti.
Nessuno deve dimenticare che fra il 1880 e il 1915 sono approdati negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l’Oceano verso le Americhe. Un numero, quindi, molto più numeroso di quelli che oggi fuggono dall’Africa per rifugiarsi da noi. Da sottolineare il fatto che circa il settanta per cento proveniva dal Meridione,
Volendo rimanere sul tema dell’emigrazione meridionale negli Stati Uniti d’America, sul quale ci prolunghiamo, diciamo subito che le motivazioni che spinsero masse di milioni di Meridionali ad emigrare furono molteplici.
Fra queste il fatto che durante l’invasione Piemontese, operata senza dichiarazione di guerra, del Regno delle due Sicilie, i macchinari delle fabbriche, non dimentichiamo che Napoli era allora una città all’avanguardia in campo industriale, furono portati al Nord dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. Le popolazioni del Meridione, devastato dalle guerra con circa un milione di morti, da cataclismi naturali (il terremoto del 1908 il terremoto di Messina uccise più di 100,000 persone) depredato dall’esercito, dissanguato dal potere ancora di stampo feudale, non ebbero altra alternativa che migrare in massa.
Il sistema feudale, ancora perfettamente efficiente, permetteva che la proprietà terriera ereditaria determinasse il potere politico ed economico, lo status sociale, di ogni individuo. In questo modo, le classi povere non ebbero praticamente alcuna possibilità di migliorare la propria condizione.
Gli Stati Uniti dal 1880 aprirono le porte all’immigrazione nel pieno dell’avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. Milioni di persone scelsero di attraversare l’Oceano.
L’arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island. Ellis Island è un isolotto artificiale, realizzato con i detriti derivanti dagli scavi della metropolitana di New York, situato alla foce del fiume Hudson nella baia di New York. Antico arsenale militare, dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, è stato il principale punto d’ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti.
Per oltre sessant’anni Ellis Island è stata la porta d’accesso al “nuovo mondo”, “l’isola della speranza”, ma nota anche come “l’isola delle lacrime” perché in tanti vi conobbero umiliazioni, deportazioni, respingimenti.
Nel 1892, infatti, questa isoletta venne trasformata in un centro di ispezione per i migranti in arrivo negli Stati Uniti. «Sono venuto in America credendo che le strade fossero lastricate d’oro», recitava un famoso canto degli emigrati italiani, «ma quando sono arrivato ho visto che le strade non erano lastricate affatto e che toccava a me lastricarle».
Attualmente l’edificio ospita l’Ellis Island Immigration Museum (che si trova nel territorio appartenente a NYC)..
Visitabile oggi è la “Registry room”, la sala dove le persone attendevano con paura e trepidazione la chiamata degli ispettori per espletare l’ultima parte burocratica e ottenere finalmente il permesso di sbarcare. In quei lunghi interrogatori venivano loro richiesti i dati anagrafici, la professione, la destinazione, la disponibilità di denaro, gli eventuali carichi penali. E, non ultimo, l’orientamento politico. In poche ore si decideva il destino di intere famiglie.
Ma la “Registry Room” era soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso che nella maggior parte dei casi si concludeva sui traghetti per Manhattan. Prima di arrivare lì i passeggeri di prima e seconda classe delle navi venivano ispezionati nelle loro cabine e scortati a terra dagli ufficiali dell’immigrazione.
I più poveri, quelli che avevano viaggiato in terza e quarta classe, erano invece inviati sull’isola dove i medici li controllavano frettolosamente.
Chi non superava gli esami veniva contrassegnato sulla schiena con un gessetto e sottoposto a ulteriori accertamenti. Una croce in caso di sospetti problemi mentali, altri simboli o lettere per disturbi quali ernia, tracoma, congiuntivite, patologie al cuore, ai polmoni o anche per una semplice gravidanza.
Dai registri ufficiali risulta che appena il 2% degli emigranti sia stato respinto, circa un migliaio di persone al mese. Spesso venivano immediatamente reimbarcati sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti e che in base alla legislazione americana aveva l’obbligo di riportarli nel porto dal quale erano partiti. Molti preferirono suicidarsi, piuttosto che affrontare il ritorno a casa. Le regole di esclusione erano spietate e imponevano che i vecchi, i ciechi, i sordomuti, i deformi e le persone affette da infermità, malattie mentali o contagiose non potessero accedere al suolo americano.
Il centro di Ellis Island era stato progettato per accogliere 500 mila persone all’anno, ma agli albori del secolo ne arrivarono circa il doppio, con oltre un milione di approdi nel solo 1907, l’anno più difficile.
In seguito i decreti sull’immigrazione degli anni ’20 posero fine alla politica di «porte aperte» degli Stati Uniti e introdussero rigide quote d’ingresso basate sulla nazionalità. La Grande depressione del 1929 limitò drasticamente gli arrivi, che scesero dai circa 240mila del 1930 ai 35mila nel 1932.
Ellis Island si trasformò a poco a poco da centro di smistamento degli immigrati a luogo di raccolta per deportati e perseguitati politici. Durante la seconda guerra mondiale vi furono rinchiusi italiani, tedeschi e giapponesi e anche in seguito venne utilizzata principalmente per la detenzione.
La struttura venne chiusa definitivamente il 12 novembre 1954 e gli edifici in disuso andarono lentamente in rovina.
Concludiamo: Il fenomeno migratorio è di difficile soluzione, tuttavia, deve essere caratterizzato dal rispetto dei diritti umani. Lo sappiamo: esso è sempre accompagnato da campagne mediatiche che promuovono il sospetto per il “diverso”, che stigmatizzano intere popolazioni sulla base di comportamenti individuali. E’ vero che la situazione è molto difficile anche per noi e che molto spesso facciamo fatica ad accettare che siano gli stranieri a lavorare o che lo Stato dia particolare aiuti a quest’ultimi ma, è anche vero che nella società attuale l’incontro con il “diverso” non è più un evento sporadico ma rientra nelle situazioni di vita quotidiana. Per questo è necessario educare alla multicultura attraverso la conoscenza di alcuni aspetti delle culture extraeuropee, la valorizzazione di alcuni valori fondamentali quali il rispetto e la tolleranza e, infine, attraverso delle politiche che favoriscano l’inclusione sociale per la prevenzione del pregiudizio, dell’intolleranza e della discriminazione.