«Provo dolore quando trovo gente che non va più a confessarsi perché è stata bastonata, sgridata: hanno sentito che le porte delle chiese si chiudevano in faccia, per favore non fate questo, misericordia, misericordia». E ancora: ricordate che non siete i padroni della dottrina e la dottrina è del Signore, che il ministero non è «fasto» per la «maestà» personale, ma è «entrare nelle piaghe del Signore». Sono le raccomandazioni che papa Francesco rivolge ai preti.
Il prete è visto come un funzionario, uno stregone, uno spettatore al balcone. Se ci fai caso sono tre àmbiti attorno ai quali è possibile sintetizzare la figura del prete. Non tutti accettano queste caratteristiche, ma per me sono sufficienti per una iniziale comprensione del presbìtero. In estrema sintesi questa visione offre la possibilità di cogliere rispettivamente il prete in sé, nel suo rapporto con il sacro e nella sua relazione con il mondo. Ecco perché trovo interessante rileggere l’intervista a padre Ettore Sentimentale che IMG Press pubblicò qualche anno fa a proposito dei preti…
Il Direttore di IMGPRESS intervista padre Ettore Sentimentale
Incontro p. Ettore Sentimentale nel suo ufficio, in un pomeriggio mitigato da una leggera brezza. Quando arrivo il parroco è divertito perché, leggendo il libro “El jesuita – La historia de Francisco el papa argentino” a cura di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti si è soffermato su un aneddoto che il papa racconta ai suoi intervistatori e del quale vengo messo al corrente. Si tratta di un ragazzo ebreo che essendo molto irrequieto veniva espulso da tutte le scuole, fin quando un altro ebreo consigliò al padre dell’adolescente di mandarlo in un “buon collegio di preti”, assicurandogli che lì il figlio sarebbe cambiato. Dopo qualche tempo il genitore vedendo che il ragazzo realmente si comportava benissimo, mosso dalla curiosità decise di chiedere al rettore come avessero fatto per correggerlo. Il sacerdote volle essere molto onesto e disse al suo interlocutore: “Il primo giorno l’ho preso per un orecchio e mostrandogli il crocifisso gli dissi: «Lui era ebreo come te, se ti comporti male farai la stessa fine di lui»”.
Questa battuta può fungere da introduzione al nostro discorso. Sono venuto a fare quattro chiacchiere sul mondo dei preti. È possibile?
Sì, senza alcun problema. Accetto questo dialogo a una duplice condizione: che venga pubblicato il 23 luglio. Una data ricca di simboliche evocazioni. Nello stesso giorno, infatti, ricorrono due anniversari: quello della dedicazione della nostra chiesa parrocchiale di S. Giacomo (anche se a rischio chiusura a causa del deterioramento degli intonaci interni ed esterni) e quello dell’ordinazione presbiterale di p. Giuseppe Sciglio, di venerata memoria. Un prete che ha veramente amato tutti e particolarmente i suoi confratelli.
Chi è il prete oggi? Come lo vede la gente?
Rispondo proponendo una lettura sociologica della figura del prete che, se da un lato potrebbe risultare non esaustiva, dall’altro è attigua alla realtà. Mi sembra opportuno, all’inizio della nostra conversazione, fotografare la situazione. Il prete è visto come un funzionario, uno stregone, uno spettatore al balcone. Se ci fai caso sono tre àmbiti attorno ai quali è possibile sintetizzare la figura del prete. Non tutti accettano queste caratteristiche, ma per me sono sufficienti per una iniziale comprensione del presbìtero. In estrema sintesi questa visione offre la possibilità di cogliere rispettivamente il prete in sé, nel suo rapporto con il sacro e nella sua relazione con il mondo.
Cerca di essere più chiaro…
Lo faccio analizzando la prima immagine, quella del funzionario. A tal proposito non posso non citare il voluminoso manuale, datato ma ancora attuale, di Eugen Drewermann, “Funzionari di Dio”. Non molto tempo addietro, un prete francese alquanto perplesso davanti al modus operandi del sistema ecclesiastico, mi scriveva: “Mi auguro di essere trattato come uomo e prete responsabile e non come un funzionario. Di fatto ci si ritrova – al 90% – come funzionari del culto”.
Questa icona rimanda all’aspetto più deteriore della “Chiesa-istituzione” che tanto male ha fatto a causa di incontrollati eccessi. Il funzionario occupa – in qualità di titolare – un impiego permanente nel quadro di un’amministrazione. Nella maggioranza dell’opinione pubblica, il funzionario è visto come un passacarte, un burocrate che effettua un lavoro di routine, senza avere alcuna responsabilità diretta perché è riservata alla gerarchia. Sostanzialmente si tratta di un “amministrato” che tuttavia riesce a ritagliarsi una sua fetta di potere attraverso le sue azioni (o in-azioni) con le quali abilmente ostacola, paralizza o rilancia l’iniziativa individuale. E visto che lavora per un capo, il funzionario si sente assicurato e privilegiato nella permanenza del suo impiego. In tempi di estrema crisi occupazionale, lui non ha motivo di preoccuparsi per il suo impiego.
Che attinenza ha tutto questo con il prete?
È strettamente collegato. Se applichiamo questi passaggi al prete, “funzionario del culto”, riusciamo a spiegarci molte distorsioni, dolorose ma reali all’interno della Chiesa e della società. Il prete così inteso, per la sua condizione di “chierico”, è naturalmente spinto a divenire un leader o un notabile, sempre tentato a esercitare sui fedeli un’autorità di tipo clericale, caduca e nociva alla testimonianza evangelica. Qui dovrei citare un elenco infinito di documenti e pronunciamenti del magistero. Basterebbe però rifarsi all’affermazione di papa Francesco durante l’omelia dell’ultima messa crismale: “-…come deve realizzarsi questa conformazione a Cristo, il quale non domina, ma serve; non prende, ma dà – come deve realizzarsi nella situazione spesso drammatica della Chiesa di oggi?”.
Parole chiare sul servizio nella Chiesa ma delle quali non colgo bene la ricaduta nel ministero del prete…
Sì, sono espressioni di chi sente bruciare dentro una passione smisurata per il popolo di Dio. A quanto detto voglio aggiungere, senza fornire alcun alibi, che spesso il “funzionario del culto” è vittima dell’arbitrarietà della “burocrazia ecclesiastica” che fa del prete un semplice esecutore di un’amministrazione e gli conferisce la (pseudo) autorità sulle comunità, spesso “virtuali”. Come “funzionari” i preti costituiscono pure il grande numero dei “permanenti mantenuti”. Diametralmente opposta a tale situazione si trova quella di coloro che vorrebbero un salario, frutto di una occupazione come quella di tanti altri operai e ciò allontanerebbe lo spettro dell’essere visti come “mantenuti”.
Una specie di “preti operai”?
In un certo senso è così, anche se oggi non se ne parla più. Ormai questi preti sono una razza in via di estinzione. E dire che è stata un’esperienza entusiasmante di missione della Chiesa nel mondo industriale. È iniziata in Francia, sotto la spinta del cardinale di Parigi nell’immediato dopo guerra ma è stata affossata dalla S. Sede all’inizio del 1954. Il porporato aveva intuito che la nuova terra di missione (le milieu) della Chiesa era la fabbrica e quindi il mondo operaio. Nel paese transalpino molti preti si smarrirono, parecchi lasciarono il ministero e qualcuno, addirittura, tentò il suicidio. Una pagina dolorosissima nella storia della Chiesa del secolo scorso, scritta sulla pelle di veri uomini di Dio. Quando nel giubileo del 2000 il papa chiese perdono per le colpe della Chiesa, mi pare che non abbia fatto riferimento esplicito a questi “martiri” contemporanei.
Sarebbe interessante approfondire questi fatti…
Sì, in questo momento mi viene in mente un libro di Michel Oronos “Le testament du chanoine S. – L’exclusion dans l’Eglise catholique” (1954-2008)”, che dedica un capitolo (“La grue n ° 4”) a questa drammatica vicenda. È scritto con competenza storica e sapienza umana. Lì si può leggere pure di alcuni famosi teologi, fra i quali il p. Yves Congar, che essendosi schierati a favore dei preti operai hanno avuto seri problemi con le autorità vaticane. Il teologo domenicano appena menzionato ha vissuto circa 10 anni di purgatorio, prima di essere rivalutato in occasione del Concilio Vat. II e fatto cardinale a 90 anni, un anno prima di morire. Meglio tardi che mai!
Passiamo alla seconda immagine, quella dello stregone. Una volta ti ho sentito dire – a proposito della decisione di non benedire le palme alla fine della messa – “il parroco non è lo stregone del villaggio”…
Sì, è vero ogni anno dico così per fare capire che certe forme liturgiche e devozionali distorte rischiano di essere confuse con la magia. Fra tutte le visioni aberranti della figura del prete, questa è la più comune. Chi è lo stregone? È colui che, tramite pratiche segrete e magiche, può aprire o ostacolare il destino degli altri. Nel caso specifico alla gente interessa che il prete butti un po’ d’acqua benedetta sui rami, altrimenti le cose non andranno bene. Capisci che questa è pura magia! Che senso ha benedire le palme senza prendere parte alla commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme? Nessuno.
Ma la gente ci tiene…
Sì, purtroppo. Il sacerdote infatti secondo il “comune sentire” detiene i “riti” mal compresi dalla maggioranza dei fedeli, la quale partecipa solo marginalmente. Per molti anni la Chiesa si è data da fare per avere un numero consistente di “praticanti”, senza andare troppo per il sottile se costoro fossero pure “credenti”. Torno al discorso principale. Se distribuisce i sacramenti (dal battesimo all’unzione degli infermi) il prete è l’uomo della vita che accoglie i bambini e accompagna i defunti. Se confessa, lui sa molte cose delle sue pecorelle, mentre ciò è interdetto agli altri. L’aspetto più devastante, in questo contesto, è dato dalla distorsione della celebrazione dell’Eucaristia, della quale difficilmente tutti i fedeli misurano l’importanza e la ricaduta di ciò che è in gioco. Parecchi colgono solo il potere del ministro di trasformare (magicamente) attraverso la formula che pronuncia, il pane e il vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo.
Questo alone di mistero che avvolge il prete, dipende forse dall’impreparazione dei fedeli?
In parte è così. La catechesi comunitaria dovrebbe motivare le ragioni della nostra fede che, nello specifico, presuppone un certo approccio alla simbologia liturgica. Ma al di là di questo, penso che – come lo stregone delle tribù primitive – il prete è solo e isolato, in ragione delle facoltà magiche o segrete che gli conferiscono un ascendente, un potere che spesso suscita un senso di “timore” nel popolo. Questa solitudine del prete e il suo isolamento sono ben simboleggiati – oltre che dal celibato – anche dallo sfarzo dei paramenti liturgici sacerdotali. Qui non voglio dire che bisogna celebrare vestiti da straccioni (purtroppo tante volte si vedono ministri bardati in modo sciatto da farli sembrare goffi), ma con dignità nei paramenti e nel portamento. Mi pare che anche in campo di paramenti liturgici esista la smania per le firme… Al di là di questo, i segni in tale contesto dicono molto più delle parole.
Cosa proponi come rimedio?
Si impone una scelta chiara che dovrebbe coinvolgere liberamente e consapevolmente tutti i preti: smettano di essere “stregoni” o di accettare che la società e la Chiesa diano loro il ruolo di membri di una classe sacerdotale che vuole solo custodire la tradizione degli uomini trascurando il comandamento di Dio (cfr. Mc 7,8). Purtroppo molte tradizioni religiose hanno perso l’originale significato (interessante al riguardo l’omelia di mons. Montenegro per la festa di S. Calogero, la trovi sul sito della diocesi di Agrigento) e sono ostaggio degli interessi economici di alcuni preti e dell’ignoranza compiacente di molte persone. Questo non è un giudizio di merito ma una constatazione. Le cause sono molteplici e qui non è il caso di elencarle. Ti racconto brevemente un fatto al quale ho assistito. Un parroco – qualche giorno prima della processione per la festa patronale – disse ai signori del comitato: “Prima datemi quello che mi spetta. Poi fate quel che volete”. Era lampante che vi fosse una situazione conflittuale fra lui e coloro che si pensavano “padroni e gestori” della festa. Torno alla commistione fra sacro e profano: sai quanti cristiani frequentano tranquillamente la parrocchia e il mago? Molti. E di medio livello culturale.
Trovo interessanti queste affermazioni. Spero che nessuno si senta offeso o che i tuoi superiori si inalberino nel leggere certi passaggi. Il discorso si sta facendo troppo lungo concludiamo con l’ultima immagine, quella dello “spettatore al balcone”.
Non sto dicendo nulla di nuovo. Sono cose che ho appreso durante gli anni della formazione. È stato un periodo molto effervescente dal punto di vista della dialettica teologica, poi purtroppo è arrivato il tempo dell’intorpidimento generale. Spero di non urtare la sensibilità di alcuno. Passo alla terza immagine, quella che caratterizza il prete come “spettatore al balcone”. A tal proposito ti invito a leggere il recente volume a cura di Alessandra Ferraro «“Non guardate la vita dal balcone…” Francesco testimone di speranza». Il titolo proviene da una formula tipica di papa Francesco. La portata simbolica di questa espressione è immediata e ricca di rimandi alla vita quotidiana del sacerdote. Spettatore è colui che prende parte a un avvenimento che sa di spettacolo, è una persona che guarda quel che accade con un certo distacco. Indica l’esteriorità dello sguardo. La posizione elevata del balcone, poi, traduce in modo plastico la sensazione di coloro che sanno quel che conviene fare, ma non si abbassano all’azione. Guardano i fatti e le persone dall’alto in basso, non esponendosi mai.
Una sorta di Ponzio Pilato che mantiene le distanze quando invece dovrebbe prendersi le sue responsabilità?
Sì, anche se non sono direttamente coinvolti nella condanna di altri. In senso lato, però, i preti sono visti come separati e superiori rispetto ai loro simili, i quali vivono e lottano immersi nel pantano dei problemi e dei drammi. Il ministero del prete dovrebbe sempre avere dei “risvolti politici”, cioè che riguardano il bene della polis. Da non confondere con il tornaconto individuale o di un gruppo di persone. Intelligenti pauca.
Come potrebbe fare un prete ad assumere un preciso impegno socio-politico, lui che è “l’uomo di tutti”?
Questa definizione, a mio giudizio, è alquanto ambigua. Per costituzione il prete non è tanto “l’uomo di tutti” quanto “l’uomo per gli ultimi”. Non si tratta di uno slogan, ma di una sfida per far vacillare la “casta sacerdotale” ricavata dagli uomini e applicata al prete. Quest’ultima è una categoria che va sempre a braccetto con i dominatori ideologici, alleati naturali della classe dominante. Ciò che tu chiami “sistema”.