Il settore calzaturiero è uno dei principali pilastri dell’economia manifatturiera nazionale. L’Italia è il primo Paese europeo per produzione: nel 2017 generava circa un terzo dei volumi complessivi della produzione continentale. Al livello mondiale, l’Italia è decima per il numero di paia di calzature prodotte e terzo esportatore mondiale per il valore della produzione, dopo Cina e Vietnam (APICCAPS-World Footwear Yearbook 2018).
Lo studio dell’Eurispes “Strategie di difesa attiva del Made in Italy calzaturiero” analizza il settore calzaturiero italiano, il valore del Made in Italy e le conseguenze della crisi economica dell’ultimo quindicennio. In particolare, si focalizza sul distretto calzaturiero fermano-maceratese, allo scopo di analizzare lo scenario, le traiettorie di opportunità e di enucleare i punti di forza e di debolezza della base produttiva locale.
«Il distretto industriale è patrimonio nazionale – spiega il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara –, fonte di valore economico, sociale e culturale, unici al mondo – nella scarpa, come negli altri settori di produzione che lo alimentano. Un sistema-moda come quello italiano, capace di generare 90 miliardi di valore, con oltre 500.000 addetti sul territorio nazionale, rappresenta non solo un asset economico ma, forse soprattutto, un patrimonio sociale e culturale che non può essere sacrificato sull’altare di una globalizzazione selvaggia. È tempo che l’Italia si adoperi in Europa per favorire una politica di difesa attiva a beneficio di quanti operano nel settore calzaturiero, che si fondi su una proposta mirata di azione, sostenuta da una robusta base di evidenza empirica e chiari obiettivi economici, sociali e competitivi. Il distretto va difeso e aiutato a proiettarsi nel futuro perché oggi vince chi riesce a mantenere caratteristiche proprie di unicità e valore all’interno dei mercati globalizzati, appiattiti, uniformati e massificati».
Secondo il Presidente della Camera di Commercio delle Marche, Gino Sabatini: «Il lavoro dell’Eurispes è una solida piattaforma sulla quale le imprese del distretto calzaturiero fermano-maceratese possono fondare il proprio rilancio. Ma è anche una preziosa e chiara indicazione di policy nazionale per l’intero comparto, attraverso la quale Governo, imprese, parti datoriali e sociali possono, evitando inutili frammentazioni, costruire soluzioni condivise efficaci. Ciò significa ascoltare, apprendere, scegliere e indirizzare risorse per realizzare interventi di sostegno immediati, perché il settore è ormai in una situazione congiunturale critica. Da oggi, dobbiamo avere tutti il “pensiero lungo”, avere chiari i grandi obiettivi e impiegare le nostre energie per raggiungerli».
«Per difendere il Made in Italy calzaturiero – dichiara Siro Badon, Presidente Assocalzaturifici – chiediamo che la politica e le Istituzioni si impegnino a livello europeo per far approvare una norma che introduca l’informazione di origine obbligatoria. Se il valore fondante dei nostri prodotti risiede nell’autenticità dell’eccellenza di chi lo produce, è indispensabile che in Europa venga garantita assoluta trasparenza. Questa riforma deve essere una priorità politica del Governo, perché una norma sul Made in tutela l’impresa che crea valore e sviluppo nei territori in cui è radicata la cultura del lavoro. Dobbiamo partire da questo punto per rafforzare un comparto cruciale per l’economia, costituito da eccellenze e competenze di altissimo profilo. Certo, produrre in Italia non è conveniente per via del costo del lavoro e delle troppe incertezze giuridico-normative ma è irrinunciabile. I clienti di tutto il mondo e i più importanti brand della moda infatti sono disposti a riconoscere un premium price al Made in Italy. Se non vogliamo perdere terreno sui mercati internazionali e pagarne le conseguenze con un altissimo costo in termini economici e sociali, non c’è altra scelta che far valere le ragioni del nostro patrimonio industriale in campo internazionale».
La produzione di calzature rappresenta il 15,1% dell’export totale del settore Tessile, Moda e Accessorio italiano (in totale circa 90 miliardi di valore).
Nel 2018, sono stati prodotti 184 milioni di paia di scarpe per un valore di 7,86 miliardi di euro. Solo il 15% del totale (27,5 milioni di paia) è destinato al mercato interno. Il valore dell’export nel 2018 ha raggiunto quasi i 10 miliardi di euro. Nonostante ciò, rispetto a dieci anni fa, il volume del venduto è diminuito dell’8,4% e il valore del 27,9% (Assocalzaturifici, 2018).
In Italia ci sono 4.500 calzaturifici che impiegano circa 75.600 addetti. Tuttavia, la crisi economica iniziata a metà degli anni Novanta, ha causato una riduzione delle aziende di quasi il 50% e un ridimensionamento della forza lavoro del 38,3%. Dal 2000 ad oggi, i volumi di produzione sono stati dimezzati (-52,7%).
L’Italia calzaturiera è caratterizzata da una vistosa frammentarietà del tessuto imprenditoriale: il 65,2% è rappresentato da microimprese che assorbono il 13,5% dei lavoratori; le piccole imprese assorbono il 54,1% degli addetti.
Le otto principali regioni a vocazione calzaturiera individuate da Assocalzaturifici sono in ordine di rilevanza: Veneto, Toscana, Lombardia, Marche, Emilia Romagna, Puglia, Piemonte, Campania.
Il distretto di Fermo Macerata: i numeri del settore
Il distretto fermano-maceratese rappresenta la più importante concentrazione spaziale di imprese calzaturiere in Italia e la principale fonte di ricchezza del territorio. In un’area estesa a 30 comuni, con hub produttivi nelle zone di Porto S. Elpidio, S. Elipidio a Mare, Civitanova Marche, Montegranaro e Monte Urano, nel secondo trimestre 2019, risultano 2.946 aziende attive (calzaturifici e produttori di parti), pari a circa un terzo del totale nazionale. La grandezza media delle imprese è di 7,2 addetti. Il 68% sono aziende artigiane che impiegano circa 21.255 addetti, pari al 26% del totale nazionale (Assocalzaturifici, 2018). La prosperità del settore dipende dalle esportazioni, che valgono circa 1,37 miliardi di euro, collocando la regione al quarto posto a livello nazionale. Le sole province di Fermo e Macerata rappresentano circa l’11% dell’export nazionale di calzature e componenti nel 2018. La bilancia commerciale calzaturiera delle Marche è positiva ed è al secondo posto nazionale dopo la Toscana.
Dal 2009 al 2019 gli effetti della crisi si sono concretizzati con un significativo processo degenerativo che ha prodotto una diminuzione delle imprese calzaturiere attive del 21%; un calo delle imprese artigianali del 30%; un taglio degli addetti del settore del 14%.
La voce delle imprese: per oltre 4 su 10 il fatturato dell’export è diminuito rispetto al 2009
Secondo l’indagine condotta dall’Eurispes nel settembre 2019 su 83 aziende calzaturiere del territorio fermano-maceratese, nel 2018, quasi 6 aziende su 10 (59,7%) del distretto fermano-maceratese hanno registrato un fatturato tra 1 e 5 milioni di euro. Per il 36% delle imprese intervistate il fatturato è rimasto stabile o è calato rispetto all’anno precedente; per il 26,5% ci sono stati segnali di ripresa.
Per il 45,1% delle aziende intervistate, il fatturato è largamente legato alle vendite effettuate all’estero, mentre per tre su dieci (30,5%) il fatturato delle esportazioni è minimo o nullo. Ben il 42,7% delle aziende ha dichiarato che, prima del 2009, il fatturato derivante dall’export pesava maggiormente rispetto ad oggi.
L’attività produttiva delle aziende è ancora fortemente ancorata al territorio: più della metà (51,8%) gestisce l’intera filiera produttiva nel distretto; il 32,5% si sposta altrove per alcune fasi, rimanendo comunque sul territorio italiano. Solamente il 15,7% delle imprese si sono inserite dentro le catene globali del valore, prevalentemente fuori dal confine italiano. In ogni caso, la delocalizzazione delle attività fa riferimento per larga parte alla produzione di semilavorati (68,9%).
Gli aspetti di valore sui quali i produttori di scarpe puntano sono: qualità (84,3%), un adeguato servizio al cliente (49,4%), il prezzo (36,1%). Quasi quattro aziende su dieci (37,8%) producono per marchi propri; il 31,7% per terze parti e tre su dieci (30,5%) stanno adottando una politica ibrida di produzione.
La parola dei consumatori: il 37% acquista scarpe ogni 3 mesi, quasi la metà è disposto a spendere fino a 100 euro per un paio di scarpe
La tecnologia, nella forma della digitalizzazione, ha inciso sulle nostre abitudini di acquisto; e la stessa cultura del consumo è stata modificata dal digitale. Quelli che vengono chiamati i trend della domanda sono sempre più spesso generati dai consumatori stessi: idee che nascono, si diffondono, che le imprese non possono condizionare ma solo intuire, intercettare e assecondare. In particolare, l’indagine condotta dall’Eurispes nel settembre 2019 presso 579 italiani, ha analizzato il comportamento di acquisto della scarpa.
Il 37% degli intervistati acquistano scarpe una volta ogni tre mesi, il 32,3% ogni sei mesi; il 12,3% una volta al mese e una piccola percentuale del 3,6% più volte in un mese. Solo uno su dieci (11,7%) acquista scarpe una volta l’anno e il 3,1% più raramente.
Il tipo di scarpe più acquistato dalle donne sono quelle con i tacchi, con una media superiore a 3 paia per intervistata; gli uomini preferiscono maggiormente le sneakers con 3 paia di media.
La possibilità di osservare il prodotto in store è per i consumatori un elemento focale nelle scelte di acquisto, che si tratti di un negozio monomarca o di un punto vendita in una grande magazzino. Il 74,6% del campione continua, infatti, a preferire questo canale per la scelta. Il 41,6% acquista scarpe dopo averle viste indossate da amici, parenti e conoscenti.
Per quanto riguarda i fattori decisivi per l’acquisto, per più di otto consumatori su dieci (83,1%), elemento fondamentale è la comodità del prodotto; per il 72,9% il rapporto qualità/prezzo; per il 36,3% (che sale a 41% se si considera anche l’attributo “luogo di produzione”) è fondamentale puntare su uno stile riconoscibile legato al Made in Italy; per un 36% è importante avere informazioni sulla qualità delle materie prime utilizzate; il 37,5% viene influenzato dai social e il 34,9% le cerca sul web prima di acquistarle.
Infine, il 46% del campione è disposto a spendere fino ad un massimo di 100 euro per un paio di scarpe, contro il 9,7% che è disposto a superare i 250 euro di spesa.
Il valore del Made in Italy: la metà delle imprese crede che un marchio possa tutelare i prodotti
Secondo quanto rilevato nell’indagine condotta dall’Eurispes, quasi la totalità (94%) di chi opera nel distretto ha dubbi sull’efficacia della tutela europea nei riguardi del Made in Italy. Circa la metà (49,4%) ritiene che la presenza di un marchio legato al territorio italiano rappresenti un’efficace tutela per i prodotti.
In particolare, l’istituzione di una legge che possa permettere di applicare il Made in Italy sulla scarpa, viene visto come un aspetto positivo che potrebbe aiutare: ad attrarre maggiori investimenti stranieri (35%); aumentare i volumi delle vendite (32,5%); aumentare i volumi produttivi (16,9%).
L’88% dei player intervistati sarebbe favorevole alla creazione di un ente certificatore che controlli e definisca i requisiti per disciplinare l’apposizione di marchio Made in Italia su un prodotto calzaturiero. La voce dei consumatori
Dal punto di vista dei consumatori, invece, ciò che contraddistingue le scarpe Made in Italy sono l’artigianalità della produzione (49,6%); il riconoscimento della durata nel tempo (26,5%); la realizzazione di prodotti con materiali ricercati e di alta qualità (26,4%).
Qual è la geografia percepita del Made in Italy calzaturiero? Le regioni che i consumatori ritengono più vocate alla produzione della scarpa italiana sono: le Marche (è la regione più considerata con il 47,6% delle preferenze), Toscana (47,4%), Lombardia (32,9%), Veneto (28,1%). La Campania è riconosciuta come luogo di produzione di scarpa italiana solo dal 16,7% del campione, la Puglia addirittura solamente dal 3,2%. È, quindi, evidente che le Marche sono in grado di posizionarsi nella mente dei consumatori come un territorio fortemente legato alla scarpa, in maniera più rilevante rispetto ai distretti concorrenti.
È importante considerare, in questo senso, che più di otto intervistati su dieci (82%) è disposto a pagare un prezzo abbastanza o poco superiore per le scarpe Made in Italy, rispetto ad un prodotto privo di tale indicazione.
La Normativa. Invertire la tendenza
L’area del distretto Fermo-Macerata è stata riconosciuta quale area di crisi industriale complessa, con decreto del Ministro dello Sviluppo Economico del 12 dicembre 2018. In assenza di un più puntuale percorso di revisione della legge 181/89 per semplificarne le procedure e per renderne adattabili i contenuti ai diversi contesti territoriali, questi interventi potrebbero risultare inefficaci e inattuabili. Tra i limiti che devono essere superati, ad esempio, il fatto che: si limita l’accesso, con investimenti sopra i 1,5 milioni, non intercettabili dalle piccole realtà imprenditoriali del distretto, laddove anche l’abbassamento ad 1 milione, operato con il recente decreto del 30 agosto 2019, oltre a non essere ancora operativo, potrebbe non essere sufficiente; si impone un’assunzione ogni 150mila euro di investimenti, che rende praticamente impossibile accedere al regime; si prevedono finanziamenti agevolati allo 0,5%, che molte aziende trovano già sul mercato.
La Regione Marche ha provveduto, ad esempio, a compensare questo limite di accesso, coprendo il range di investimenti tra 200.000 e 1,5 milioni, ma misure temporanee e a livello locale non sono ormai più idonee a sostenere un distretto in crisi, richiedendosi una visione di lungo periodo e sistemica. Non basta dunque l’istituzione dell’area di crisi complessa per invertire la tendenza.
In tutto questo però, in attesa della circolare applicativa, il decreto del 20 agosto 2019 ha posto le basi per un sicuro rilancio dello strumento, con quattro direttrici fondamentali: priorità agli investimenti ad alto contenuto tecnologico; abbassamento della soglia minima di investimento (a 1 milione); ampliamento della platea di imprese beneficiarie (con apertura a PMI e reti di imprese); specifici programmi occupazionali da realizzarsi entro 12 mesi dalla data di ultimazione dell’investimento.
I provvedimenti possibili: contratto di rete a tassazione agevolata; estensione di agevolazioni; tassazione di distretto; agevolazioni Irap; agevolazioni fiscali su capitale umano e formazione; estensione delle ZES.
La contraffazione: un male globale
L’Ocse, a partire dai dati forniti dalle Autorità doganali, ha quantificato in circa 461 miliardi di dollari il valore del commercio internazionale di merci contraffatte, pari a circa il 2,5% del totale degli scambi mondiali; stima che non comprende le merci contraffatte acquistate nello stesso Stato di produzione e il controvalore economico della pirateria digitale.
La contraffazione rappresenta un disincentivo all’innovazione e, quindi, un possibile rallentamento della competitività dei sistemi produttivi incisi dal fenomeno. I danni cagionati alle imprese che operano nella legalità sono poi connessi alle mancate vendite, alla riduzione del fatturato, alla perdita di immagine e di credibilità, alle rilevanti spese sostenute per la tutela dei diritti di privativa industriale.
L’industria del falso
Il mercato della contraffazione nazionale è anche alimentato da veri e propri “poli produttivi” sul territorio, organizzati per gestire ogni singola fase del più ampio processo che conduce all’immissione in consumo dei generi contraffatti: dall’importazione della materia prima all’assemblaggio, dallo stoccaggio alla vendita. Le fasi di assemblaggio e confezionamento finale dei prodotti sono, nella maggior parte dei casi, curate in fabbriche clandestine nel nostro Paese, mentre la distribuzione al dettaglio viene assicurata da una fitta rete di intermediari e venditori, per lo più di origine extra-comunitaria. Il denaro ricavato dagli affari portati a termine viene talvolta convogliato in banche collocate in paesi off-shore, dove il segreto bancario è più stringente, avvalendosi anche delle agenzie di money transfer. L’evoluzione delle tecniche di falsificazione ha fatto sì che il falso sia sempre più indistinguibile dall’originale.
Il paradosso del Made (non) in Italy
L’attività di conservazione di un prodotto o di semplice cambiamento dell’aspetto esteriore del prodotto (confezionamento o apposizione di etichette, etc.) non sono sufficienti per attribuire al prodotto il luogo dove sono svolte quale origine. Per prodotti industriali ed artigianali è quindi consentito apporre il marchio d’origine Made in Italy: se tutte le parti sono fabbricate all’estero, ma vengono successivamente assemblate in Italia per ottenere il prodotto finale, oppure, se tutte le parti sono fabbricate in Italia e vengono successivamente assemblate all’estero, ma senza che le parti fabbricate in Italia non subiscano trasformazioni o lavorazioni sostanziali.
Una diversa e più articolata tutela in sede comunitaria permetterebbe di valorizzare appieno la produzione italiana rispetto a quella di altri paesi extra europei ed europei, riducendo, almeno in parte, lo svantaggio concorrenziale sul costo del lavoro.
Il concetto del 100% Made in Italy, di non facile garanzia per la sua certificazione, nel breve periodo, potrebbe indebolire l’industria e la filiera produttiva, che oggi ha dei piccoli margini di flessibilità organizzativa (esternalizzazione delle fasi di orlatura e semilavorati). Ma, certamente, nel lungo periodo e a parità di competitività del costo del lavoro, è un obiettivo da perseguire.