Dalle carceri il rischio di un “girone di ritorno” del COVID19, servono provvedimenti immediati

Sedate le rivolte, le carceri hanno smesso di interessare i media. Ma l’emergenza non cessa, il rischio di contagi all’interno delle strutture carcerarie, una volta “entrato” il virus, è quasi una certezza. E una volta innescato contagerà i detenuti, gli operatori delle case circondariali, i loro familiari, noi tramite loro in un insensato “girone” di ritorno.

 

Non vi annoio con la “storia” dei diritti dei detenuti, che a troppi non interessa, vi racconto quello che vi preme: così facendo, il virus continuerà a dilagare.

 

E’ di poche ore fa la notizia di un caso accertato di COVID19 nel carcere di Lecce: si tratta di una donna entrata in carcere il 7 marzo con la figlia di un anno, che quindi ha presumibilmente contratto il virus fuori e lo ha “portato” nella sezione femminile della casa circondariale.

Proprio ieri (a tre giorni dalle rivolte nelle carceri e all’indomani del primo agente di polizia penitenziaria positivo al COVID19) a un mio assistito è stato notificato un ordine di carcerazione, non sospeso, per cui è stato tradotto in carcere.

Nella prassi dell’esecuzione penale italiana, una volta che una sentenza è definitiva può essere eseguita in qualsiasi momento e, sempre nella prassi, i fascicoli attendono parecchio tempo sulla scrivania prima di essere “lavorati”. La sentenza di condanna era definitiva da mesi, poteva essere eseguita quindi mesi fa come fra un anno, non c’era alcuna esigenza di particolare celerità nè alcun pericolo di fuga. E in una situazione carceraria in delirio, anzichè posticipare i nuovi ingressi per non aggravare ulteriormente l’affollamento carcerario durante l’emergenza corona virus, viene deciso che è ben possibile consentire nuovi ingressi.

Non è ovviamente l’unico. Gli appelli a gestire in qualche modo la situazione sono corali quanto inascoltati.

Il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze qualche giorno fa ha – giustamente – lanciato un appello affinchè si trovi una soluzione di emergenza: propone che con un provvedimento straordinario e temporaneo si conceda la detenzione domiciliare “per legge” a tutti i detenuti che hanno a disposizione un alloggio e il cui residuo di pena sia inferiore ai tre anni per un periodo di sei mesi, escludendo i reati più gravi.

C’è chi propone, non per deflazionare ma per evitare ulteriore sovraffollamento, un differimento nell’emissione di ordini di esecuzione della pena in conseguenza della definitività della sentenza di condanna.

Ancora, un’altra proposta suggerisce di sospendere e differire con decreto legge l’esecuzione della pena per i condannati a pene inferiori a tre anni e sottolinea che persino l’Iran – non proprio paladino dei diritti umani – lo ha fatto il 3 marzo, disponendo la detenzione domiciliare anzichè in carcere per 54.000 detenuti con pene inferiori a 5 anni.

La radicale Rita Bernardini e l’ex vice capo del Dipartimenti dell’amministrazione penitenziaria, Massimo de Pascalis, propongono amnistia e indulto (anche se i tempi tecnici sarebbero probabilmente eccessivamente lunghi rispetto al momento di emergenza).

Il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha predisposto delle Linee guida per agevolare l’affidamento in prova per i detenuti tossicodipendenti. Un esempio virtuoso che forse sarà seguito anche in altri distretti. Virtuoso ma insufficiente: la pandemia ci ha insegnato che le azioni per essere efficaci devono essere estese all’intero territorio nazionale, in questo caso a tutta la popolazione carceraria italiana.

Quale che sia la soluzione che Governo e Parlamento decideranno di adottare, è certo che un provvedimento va preso poichè l’inerzia e il ritardo nell’assumere decisioni nette e coraggiose possono essere fatali. E il corona virus che stiamo cercando di sconfiggere con misure dure ma necessarie potrebbe ritornare a circolare dalle carceri di cui non ci siamo occupati, come in un ottuso girone di ritorno.

Emmanuela Bertucci, legale, consulente Aduc