Provenendo la mia generazione dal secolo scorso appare evidente che sia ancorata a visioni novecentesche, in cui la filosofia di Hegel veniva declinata alla maniera di Gentile e anche di Spaventa e che Croce, ancora fino a qualche tempo fa, potesse assurgere e rifinitore di una mentalità classico-liberale e che l’estetica abbia fornito, a chi ha attraversato il liceo classico, un senso armonico in cui l’umanesimo dava forma e sostanza al relazionarsi col mondo.
Tuttavia quella stessa generazione ha dovuto attraversare il confine del nuovo millennio e qui si sono plasticamente ed esistenzialmente evocate identità nuove e differenze sopraggiunte: la storia, più che finire, ricominciava a galoppare con nuove conflittualità prima culturali, poi religiose, poi finanziarie ed infine belliche. Interpreti formidabili hanno raccontato il passaggio nel nuovo millennio: Oriana Fallaci capì, prima di altri e senza ipocrisia, che lo scontro presagiva costi inimmaginabili, ove l’occidente perdeva la sua identità, calpestato e travolto dalle povertà del mondo, che, per forza di cose, vivono il conflitto, non più mitigato dalle diplomazie e dagli accordi internazionali, ma come momento di violenza belluino ed esplosivo, in cui la vita perde valore e la sopravvivenza rimane l’unica meta auspicabile.
Certo la grande ipocrisia, operando in difesa di una organizzazione esistenziale fatta di comodità e assenza del nemico, fu obbligata a cedere il passo al dover riconoscere il senso di paura, il panico diffuso, fino a giungere all’annichilimento delle speranze.
Dopo aver vissuto, accompagnati dall’inesorabile progresso come idea in evoluzione, continuata permanentemente nel tempo, lo scorcio del nostro attuale secolo ci ha portato a percepire l’effetto di contraccolpi ripetuti, sia sotto il profilo finanziario che esistenziale, in cui il godimento interrotto di una vita migliore ha segnato inesorabilmente con lo stupro perpetrato nei riguardi delle nuove generazioni, le quali non vivono più, e lo fanno sempre più consapevolmente, una dimensione in cui era fornita, a mò di bussola, una chiara contrapposizione tra destra e sinistra, che in qualche modo orientava.
Oggi, infatti, di fronte al vuoto di orientamento, una certa ignoranza ispira una classe dirigente destinata a tenere un passo ondivago in un quadro sempre più multipolare (CINA, USA, Europa a più velocità, Russia, Sud del mondo), in cui declinare politiche coerenti, stringenti e risolutive appare ed è attività difficile se non ardua.
Certo l’assenza di intellettuali di riferimento non facilitano il compito di rintracciare linee di percorrenza ed itinerari di evidente bellezza, laddove la chiarezza era al tempo stesso forza e visione, voglia e vitalità, disciplina e godimento di una condizione che da politica sapeva attraversare l’esperienza di ciascuno, rendendo la vita piena di gioia e di realizzazione. Così, nel deserto dei saperi certi e dei sentimenti diffusi e condivisi, le comunità nazionali, più o meno grandi, più o meno democratiche, si smarriscono senza più avere un orizzonte, i cui lineamenti avrebbero dovuto fornire speranze.
Pochi oggi riescono a ridefinire pensieri risolutivi, momenti con cui l’intelligenza possa misurarsi per dare risposte alle esistenze, in termini di regole e di appropriate applicazioni. Uno di questi è Giorgio Agamben, filosofo tra i più conosciuti al mondo, in grado di agire nel dibattito delle idee suggerendo consapevolezze e scompaginando i fronti tradizionali, in cui le odierne negate libertà ed i calpestati diritti costituzionali alimentano la spinta verso una rinnovata ribellione, classicamente intesa.
Ossia quella capace di coniugare senso patrio e significato libero nel vivere, in cui non ci si limita a sopravvivere, ma si desidera attraversare e concretizzare il vitale auspicio di riprendere in mano il destino dello stare assieme. In cui la forza sta nell’esprimere volontà e rendere le potenzialità momenti di realizzazione, in cui l’umanesimo facendo i conti con la storia deve acquisire la tecnica capace del dare risposte, del compiere il tragitto oltre la parentesi pandemica.
In cui il virus fornisce l’imponderabile anche in termini di speranza ed in versione positiva, in cui ci si possa dare e riconoscere nuove possibilità. Agamben in un passo descrive bene questa idea, laddove esplicita che ”… chi vuole scrivere non vuole scrivere questa opera, questo romanzo, vuole scrivere in generale, che è l’esperienza la più insensata e strana, però credo anche la più profonda. Molti anni dopo ho visto che nella filosofia medioevale la scrittura è il modello o l’immagine della potenza, della possibilità: il bambino che impara a scrivere, oppure lo scriba che sa già scrivere, che è padrone della sua potenza.
Io credo che sia questo: nel voler scrivere in realtà c’è una specie di desiderio e di esperienza della possibilità. Voler scrivere significa volersi rendere la vita possibile. Dunque il suo voler scrivere, agli inizi, non coincideva con un voler pensare? -Sì, credo che all’inizio avesse la forma «voler scrivere», dev’essere così un po’ per tutti.”.
In questo vi si trova il ruolo dell’uomo che, in ogni tempo, intende, nell’utilizzare la tecnica propria, scoprire come il mondo possa ricercare, trovare ed alimentare nuove possibilità, nuove libertà, nuove bellezze in cui scorgere la purezza dell’atto che si compie e genera soluzioni, che pratica realizzazioni, che suggestiona col pensiero e fa storia, superando le cesure occasionali della vita.