Diario per il nostro futuro

Il Rapporto Italia vede la luce all’inizio di ogni anno. Così è stato anche nel 2020. Poi, però, è arrivato Coronavirus e tutto si è fermato. Tutto sembra essere destinato a cambiare in sua funzione.

 

Sappiamo che l’Economia soffrirà: non di quanto e per quanto. Sappiamo che la Società cambierà percorsi e tempi: non per quanto e non da quando. Sappiamo che la Politica sarà di fronte a un bivio: riattivare la democrazia liberale o rassegnarsi al suo lento dissolversi.

Il Rapporto Italia compie il gesto del lanciatore del martello: ricorda il passato, osserva il presente, si proietta nel futuro. Abbiamo chiesto perciò ad alcuni dei nostri Autori, partendo dalle riflessioni contenute nel Rapporto, di estendere quel pensiero alle nuove sfide che ci attendono, tratteggiando il nostro possibile futuro attraverso brevi note, con le quali stimolare la riflessione e il dibattito.

Nelle prossime settimane, al ritmo di uno a settimana, proporremo al Paese queste riflessioni Eurispes.

Partiamo con il saggio di Alberto Mattiacci, Presidente del Comitato Scientifico dell’Eurispes

L’insostenibile leggerezza dell’economia. Creazione vs Distruzione

Veniamo da decenni nei quali è sembrato che l’economia – o meglio, il modello capitalistico di economia – fosse il metro di misura di tutte le cose. A questa crisi Coronavirus, fra qualche tempo, riconosceremo forse il merito di averci aperto gli occhi, mostrando finalmente a tutti che “il re è nudo” e che, se l’economia vorrà ancora essere il motore principale della Storia, dovrà avere forma diversa dal Turbocapitalismo.

La distruzione creatrice. Il concetto è noto: il capitalismo possiede una straordinaria abilità auto-generativa, essendo capace di rivoluzionare la propria struttura dal suo stesso interno. Quello della distruzione creatrice è un classico della scienza sociale, vero e proprio pay-off del capitalismo, mai passato veramente di moda, e teorizzato da pensatori di primo rango, quali Karl Marx e Joseph Schumpeter. Schumpeter scrive nel 1942:

«è per sua natura una forma o un metodo di cambiamento economico e non solo non lo è mai, ma non può mai essere fermo. […]
Questo processo di distruzione creativa è il fatto essenziale del capitalismo».

In quella che gli storici chiamano “la seconda globalizzazione”, a tutto ciò è stato dato un nome particolare: Turbocapitalismo. Una roba che ha (stra)arricchito alcuni, ingrassato molti e impoverito altri.

La distruzione. Siamo nel 2020. Già un quinto del nuovo secolo se n’è andato. Scivolato, come un soffio, sopra, intorno e dentro la Penisola. Un quinto di secolo tumultuoso, che si è portato via un sacco di cose.

Il modello di una crescita continua, senza attenzione allo sviluppo, perseguito dal Turbocapitalismo ha fatto forse troppi danni: una crisi ambientale che sembra aver modificato il corso delle stagioni; una crisi umanitaria che investe l’intero bacino mediterraneo extraeuropeo e il (solito) Medio Oriente; una crisi finanziaria che ha sollevato il velo sulla nuova dialettica economica, fra chi governa la finanza e tutti gli altri, Stati nazionali inclusi; una crisi sanitaria possibile per l’interdipendenza fra le persone generata dalla globalizzazione tecno-economica, e che non si sa che mondo nuovo lascerà. Per terra, tramortita e ben pasciuta, la Politica.

Questo tempo, ha proceduto anche al progressivo smantellamento del paradigma della massa: produzione, distribuzione, consumi, comunicazione – aggiungete a ciascuna di queste parole un “di massa” e otterrete il profilo di un mondo economico nel quale non vi riconoscete più.

La creazione. Già, perché il mondo economico nel quale vi riconoscete ha i connotati della personalizzazione dei prodotti e dell’individualizzazione dei servizi; della distribuzione online che arriva fino alla porta di casa ed è aperta 7/24; della comunicazione che si sprigiona tutt’intorno a noi e ci vede parte del sistema stesso; di un consumatore che non sa di poter essere protagonista e non più mero ricettore passivo.

Tutto questo è stato creato nell’arco di pochi decenni, certamente dalla tecnologia ma è stata l’economia capitalistica a fornirle lo spunto e la forza, ad aprirle il territorio planetario. Qui ne vedremo ancora delle belle.

Non è tutto, però: il primo ventennio del secolo è anche il tempo dell’esprimersi di un’ancor più eccezionale potenza generatrice, di portata davvero epocale. Ha per protagonista addirittura l’essere umano.
Il virus, intanto, costringendo un po’ tutti a entrare in confidenza con la Rete, avrà abbattuto per sempre – in moltissimi – certe resistenze ad arricchire il proprio campo esistenziale con il digitale. È una buona notizia: un gran balzo in avanti ma non il principale.
La grande discontinuità è un’altra.
La Società infatti inizia a riempirsi di gente che ha una testa formata in modo differente rispetto ai genitori, ai nonni e, spesso, anche ai fratelli/sorelle. Questo processo formativo ne fa una razza diversa, discontinua, geneticamente più adeguata al nuovo giro di distruzione creativa del capitalismo.

Ha una testa che si è formata in altro modo: qui sta il punto. Mutatis mutandis, i giovani della Z Generation non possono somigliare ai BabyBoomer: il loro cervello si è formato dentro e di fronte a degli schermi; le sollecitazioni del gioco sono avvenute perlopiù mediante giocattoli molto strutturati e non inventando giochi da qualunque oggetto; lo spazio di vita collettiva, fra pari e con gli adulti, è divenuto raro, strutturato, asfittico e limitato; il tempo di apprendimento è compresso, poche ore al giorno, e ha una minore presenza di adulti tutori; le distinzioni di genere semplicemente non esistono; la condivisione ha preso il posto del possesso. Ci sono delle parole-chiave a denotare tutto ciò: brevismoinformalitàmulti-tasking, onniscenzapeer-to-peerpersonalizzazionesemplificazione.

Perciò, è un homo novus quello che nasce con i giovani: uno che ha una testa differente e di conseguenza agisce e pensa. Noi meno giovani e gli anziani possiamo adeguare le menti alla silhouette dell’homo novus, ma non il cervello: per quello, è troppo tardi.
Il risultato di tutto ciò è, cionondimeno, epocale e anche affascinante: una popolazione che muta e che, mutando, affronterà nel ruolo di creatrice la nuova distruzione creativa del capitalismo.

La distruzione creatrice nell’era del contagio. Siamo convinti che questo virus non fermerà il processo di distruzione creatrice ma che ne influenzerà la qualità, già indirizzata dall’imperativo-sostenibilità, innovandola ulteriormente e accelerando il processo di inserimento dei giovani in società.

La macchina si rimetterà in moto, questo è certo. Ma ci vorrà un tempo che si misura col metro degli anni, non dei mesi. La ragione è elementare: il Coronavirus ha aperto una finestra nelle nostre emozioni; una finestra che affaccia sulla paura del contagio. Era chiusa da decenni.
Emozioni come la paura durano a lungo. Ecco perché ci vorranno anni per richiuderla e, ancor di più, per dimenticarci della sua esistenza.

Nel frattempo, avremo imparato molte cose, che influiranno, eccome, sulla spinta della distruzione creatrice: che il comportamento dell’individuo conta, perché influenza la vita altrui; che la competenza ha valore, eccome, in sanità come in economia; che un’altra organizzazione di vita è possibile e, anzi, auspicabile; che il contatto con gli altri ci manca e nessun mezzo digitale potrà mai sostituirlo.

Il Coronavirus è venuto a imprimere un’ulteriore – forse, definitiva – spinta al veicolo della Storia, affinché chiuda la pagina del Novecento e acceleri nell’edificare una nuova Società, una nuova Economia e una nuova Politica.
Con una convinzione: l’idea che nessuno potrà farcela da solo. Non è una cattiva notizia.

ALBERTO MATTIACCI