Io vorrei tanto vedere non dico in faccia, ma almeno in mascherina, chi, dotato di sopraffina competenza linguistica e inusitata sensibilità umana, ha coniato il termine “distanziamento sociale” per definire la distanza che si deve tenere tra i corpi delle persone, per precauzione in questo tempo di Covid19, insieme ad altre misure tipo la clausura generale di due mesi, l’uso della mascherina e dei guanti, la disinfezione delle mani e delle superfici, ecc.
Può darsi che la persona in questione sia soltanto una grande ignorante del significato delle parole italiane, ma io ho l’impressione che, comunque, questa impropria e pesante definizione rappresenti una sorta di lapsus, come Freud chiamava quegli “errori spesso dovuti a motivi inconsci che rivelano un impulso in contrasto con ciò che si sarebbe voluto dire o scrivere” (voce “lapsus” della Treccani online), quindi un velato desiderio di confermare, anzi, di esacerbare quelle pericolose distanze sociali che già esistono purtroppo tra le persone, aumentando così la diffidenza, l’insofferenza per questa o quella categoria, sino ad arrivare a giustificare su larga scala il razzismo, il sessismo, l’omofobia e via dicendo. E mi preoccupa molto che le istituzioni abbiano fatto propria l’espressione, a quanto pare senza un minimo di riflessione e di critica.
Infatti, è chiaro che il distanziamento indispensabile, che deve essere imposto, è quello fisico. E cioè tenerci a una certa distanza dagli altri affinché i nostri fiati o la nostra pelle non riescano a veicolare il virus, di cui possiamo essere eventualmente portatori asintomatici. Ma, insieme a questa distanza fisica, per uscire da questo cataclisma sana di corpo, di mente e di animo, alla nostra società occorre proprio la vicinanza, la solidarietà sociale, il fare gruppo compatto con tutti, il sentirci e stare più vicini e uniti in modo fattivo, anche se non fisico, con tutte le altre persone, con un occhio particolare verso le più fragili, come possono essere, ad esempio, i senza fissa dimora, i poveri di ieri e i nuovi poveri di oggi, e coloro che si sentono smarriti di fronte a ciò che ci sta accadendo.
Di fronte al messaggio fuorviante, che sta veicolando da almeno tre mesi la definizione “distanziamento sociale”, pochi, mi pare, purtroppo, sono stati coloro che si sono opposti a questo insulto al semplice buon senso, pubblicamente e con argomentazioni nette e severe.
Un contributo molto apprezzabile in questo senso è uscito il 30 aprile scorso su “Avvenire”, (1) a firma di Dario Fortin, docente e ricercatore in educazione professionale socio-sanitaria, all’Università di Trento. Ribellandosi a questa volgare distorsione della nostra lingua e anche della realtà del nostro Paese, che si basa sul “sociale”, l’articolo inizia con una osservazione che fa notare l’assurdità, la grossolanità, di quella espressione proprio a partire dall’importanza fondamentale che ha, appunto, il “sociale” in Italia:
“Le istituzioni hanno subito proclamato il ‘distanziamento sociale’ senza accorgersi di svuotare il significato della parola ‘sociale’ che oggi si riferisce a un mondo concreto fatto di 5 milioni di volontari e di decine di migliaia di giovani in Servizio civile e di professionisti dedicati a prendersi cura delle persone. Nei nostri territori sono presenti varie realtà impegnate nel privato-sociale – all’interno del Terzo settore – come le associazioni di promozione sociale, le cooperative sociali e le fondazioni, che fanno da collante umano ed economico tra lo Stato e il mercato. Inoltre sappiamo che in questi giorni i ‘social media’ stanno facendo tanto per stare più vicini e abbattere le distanze”.
Per proseguire subito dopo con una osservazione pertinente e tranciante, che mi permetto di evidenziare:
“A partire dalla cosiddetta Fase 2, sarà il momento di superare questo ritardo semantico e scientifico, datato almeno un trentennio, che mostra poca avvedutezza delle istituzioni nella narrazione degli eventi che stanno cambiando la quotidianità della nostra vita. Mi sembrerebbe opportuno parlare dunque di ‘distanziamento fisico’ anche per favorire contemporaneamente forme di inclusione sociale per chi già è più vulnerabile”.
Riferendosi poi alle situazioni che rendono più facile alle malattie di sferrare i loro attacchi, elenca gli estesi tagli ai settori sanitario, sociale, scolastico e culturale, le numerose forme di ingiustizia e disuguaglianza economica, e infine le troppe guerre che ancora oggi insanguinano il mondo. E ricorda la Carta di Ottawa, stilata dalla OMS nel 1986, in cui, dando ai governi le linee guida per migliorare i livelli di salute delle popolazioni, si erano elencati i seguenti prerequisiti: la pace, l’abitazione, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, le risorse sostenibili, la giustizia sociale e l’equità.
Osservando come il virus attacchi tutti allo stesso modo, ma le conseguenze peggiori ricadano sulle persone più vulnerabili e su chi è culturalmente ed economicamente più povero, mentre aumenta la forbice tra i ricchi e i poveri, Fortin chiede apertamente una coraggiosa inversione di rotta nelle scelte politiche, suggerendo di prendere in considerazione il disarmo per “riposizionare” queste forti spese in settori considerati “improduttivi” da chi domina attualmente l’economia, ma che sono invece la diga più sicura a salvaguardia della salute della pace e del benessere, e cioè la sanità il sociale, la ricerca, l’istruzione, la cultura e l’ambiente. Solo così, questa la convinzione di Fortin, i nostri figli e nipoti potranno vivere meglio in una società dove sia ridotto il distanziamento sociale, spirituale ed economico di oggi, ricordando ancora una volta che “il ‘sociale’ è patrimonio della nostra vita e della nostra salute.
Nella stessa direzione dell’articolo su “Avvenire”, di cui raccomando la lettura integrale, va anche la riflessione di Nino Sergi del 18 maggio dal titolo
“E ora aboliamo l’espressione ‘distanziamento sociale'”, (2) in cui, fra l’altro, si può leggere: “Parlare di distanziamento sociale invece che di distanziamento fisico è falsare la realtà. È un po’ anche usare le parole a vanvera. E mi domando perché, dato che raramente mi è capitato di vivere e di vedere un avvicinamento sociale così forte come in questi 75 giorni”. E si enumerano le iniziative di socializzazione da balcone a balcone, l’unanimità del coro di ringraziamenti per il personale sanitario, i numerosissimi incontri sui social, su skype, meet o zoom, per terminare con una osservazione secondo me molto pertinente, vale a dire la bestemmia insita nel “distanziamento sociale” applicato alla ripresa della celebrazione eucaristica pubblica – e io aggiungo alla ripresa di ogni culto religioso.
Come conclusione mi piace citare quanto è scritto su una colonnina di appoggio per i guanti e il disinfettante per le mani, che ho visto in un negozio del commercio equo e solidale: “DISTANZIAMENTO FISICO + SOLIDARIETA’ SOCIALE”. (3)
Una luce che mi ha rincuorato – un augurio per tutti quanti.
1 – https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/mettiamocelo-in-testa-il-distanziamento-fisico
2 – http://www.vita.it/it/article/2020/05/18/e-ora-aboliamo-lespressione-distanziamento-sociale/155525
3 – qui l’immagine: https://www.aduc.it/generale/files/file/newsletter/2020/IMG_20200527_165524.jpg?1590836632081
Annapaola Laldi, consulente Aduc