Corte Ue: sì a trasformazione delle grandi banche popolari in S.p.A.: ma i soci uscenti si rimborsano salvo che il rimborso non intacchi i fondi propri “anti-default” della banca…
Alcuni soci di banche popolari, l’Associazione Adusbef e la Federconsumatori (di seguito, «ricorrenti») hanno impugnato dinanzi al TAR Lazio alcuni atti della Banca d’Italia che davano attuazione al d.l. n.3/2015 (Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti, c.d. Investment compact), modificativo del “Testo unico bancario” (TUB).
In base alla nuova normativa, l’attivo delle banche popolari (costituite in forma di società cooperativa) non può superare il tetto di 8 miliardi di euro. In caso di superamento di tale tetto, la banca popolare dovrà ridurre il proprio attivo oppure procedere, alternativamente, alla propria trasformazione in società per azioni o alla propria liquidazione. In questo modo, il legislatore italiano, affermando l’obiettivo di miglioramento della governance delle banche, tende, da un lato, ad eliminare il limite al possesso del capitale delle stesse (nelle banche popolari, infatti, le quote investite da ogni socio non possono superare lo 0,5% del capitale sociale) e, dall’altro, a ricondurre il sistema bancario al principio per cui il voto di un azionista pesa in modo proporzionale al capitale posseduto (maggiore è il numero di azioni, più conta il voto di quell’azionista), mentre nelle banche popolari vale il principio «una testa, un voto».
La nuova normativa italiana prevede, inoltre, che, in caso di recesso di uno dei soci in occasione della trasformazione di una banca popolare in società per azioni, il suo diritto al rimborso delle quote può essere limitato, anche totalmente e anche a tempo indeterminato, ove ciò sia necessario ad assicurare che il capitale della banca sia sufficiente ad evitare un default.
I ricorrenti temono che detto sistema danneggi, in definitiva, soltanto i piccoli investitori, quali i soci delle banche popolari, e che il consentire a una banca popolare trasformata in società per azioni di rinviare il rimborso delle quote detenute da un socio per un periodo illimitato o di limitarne in tutto o in parte l’importo equivalga, di fatto, ad una espropriazione senza indennizzo.
Nel 2016, il TAR Lazio ha rigettato il ricorso.
Nel frattempo, le banche popolari italiane si sono tutte adeguate alla riforma, tranne due (la Banca Popolare di Sondrio e Banca Popolare di Bari).
La sentenza del TAR è stata appellata davanti al Consiglio di Stato. Quest’ultimo ha sollevato questione di legittimità costituzionale, sotto diversi profili, relativamente al d.l. n. 3/2015. La Corte Costituzionale, nel 2018, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale.
Il Consiglio di Stato, quindi, ha ritenuto di dover promuovere un procedimento pregiudiziale dinnanzi alla Corte di giustizia affinché chiarisca se una normativa nazionale come quella di cui trattasi sia compatibile con il diritto dell’Unione[1].
Con l’odierna sentenza, la Corte premette che i giudici nazionali possono proporre una questione pregiudiziale in qualsiasi momento, anche dopo che la Corte costituzionale dello Stato membro in questione si è pronunciata sulla legittimità della legge nazionale. Se così non fosse, l’efficacia del diritto dell’Unione sarebbe compromessa.
Nel merito, la Corte rileva che le limitazioni ai rimborsi delle quote ai soci recedenti (limitazioni che possono consistere nella riduzione degli importi rimborsati e/o nel rinvio a tempo indeterminato del pagamento) implicano un sacrificio della libertà d’impresa e del diritto di proprietà garantiti dalla Carta. Tuttavia, esse sono legittime purché adeguate e proporzionate all’obiettivo di interesse generale, perseguito dal diritto dell’Unione, di garantire la stabilità del sistema bancario e finanziario e quindi purché strettamente necessarie ad assicurare alla banca i fondi propri sufficienti a contrastare un suo eventuale default (valutazione spettante in concreto al giudice nazionale).
La Corte ricorda, infatti, che la grave difficoltà di una banca rischia di propagarsi rapidamente alle altre banche in tutta l’Unione. Ciò rischia, a sua volta, di produrre ricadute negative in altri settori dell’economia. Pertanto, la salvaguardia prudenziale di una banca equivale a mettere in sicurezza tutto il sistema.
Quanto al tetto di 8 miliardi di attivo, al di sopra del quale le banche popolari sono obbligate a trasformarsi in SpA, a ridurre il loro attivo o a procedere alla loro liquidazione, la Corte osserva che il diritto dell’Unione non prevede direttamente obblighi o divieti.
La Corte rileva, però, che tale “tetto”, limitando l’importanza dell’attività economica esercitabile dalle banche cooperative italiane, può dissuadere investitori di altri Stati membri dall’acquisire una partecipazione nel capitale di dette banche. In tal senso, una normativa come quella italiana di cui trattasi costituisce, in principio, una restrizione alla libera circolazione dei capitali (art. 63 TFUE).
La Corte sottolinea che una simile restrizione può, in astratto, essere giustificata dallo scopo di garantire una maggiore competitività delle banche, una loro sana governance e, in ultima analisi, la maggior stabilità complessiva del sistema bancario e finanziario europeo. La Corte demanda al giudice nazionale di verificare, in concreto, se il tetto di 8 miliardi sia effettivamente idoneo a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e sia proporzionato ad esso, cioè non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento.
[1] In particolare, con il Regolamento (UE) n°575/2013, sui requisiti prudenziali per gli enti creditizi e le imprese di investimento, con il Regolamento delegato (UE) n° 241/2014 sui requisiti di fondi propri, con la libertà d’impresa e con il diritto di proprietà garantiti, rispettivamente, dagli articoli 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta), nonché con il principio di libera circolazione dei capitali di cui all’art. 63 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE).