ANDREA FILLORAMO: I CRISTIANI DEVONO CREDERE ALLE PAROLE DI PAPA FRANCESCO

Andrea Filloramp, un tema costante dei tuoi scritti è il ruolo della Chiesa nella società moderna, post conciliare, che spesso tu vedi realizzato nel Papa Francesco, che indubbiamente attrae più i non cattolici che i cattolici, di cui non si sa se sono una sparuta minoranza o molti di più, che l’osteggiano in molti modi, e l’accusano, addirittura di essere un papa usurpatore di un titolo che apparterebbe ancora al suo predecessore. Vuoi approfondire questo concetto?

Credo che quanto ho scritto, in diversi articoli, sia sufficiente a dimostrare che Papa Francesco è un papa grande innovatore che cerca di riedificare una Chiesa – istituzione che si è sempre di più allontanata dal Vangelo dal quale trae le sue origini. Poi, diciamolo chiaramente: Papa Bergoglio non ha bisogno di essere difeso da me o da qualunque altro. Le sue parole e molto di più la sua testimonianza sono sotto gli occhi di tutti. Credo che nessuno dimenticherà l’immagine di Papa Francesco, che da solo camminava nelle strade di Roma, durante il lockdown. Egli ha voluto far vedere al mondo che solo nel silenzio e nella solitudine e non nel chiasso possono essere affrontati i problemi che affliggono l’uomo moderno, che la pandemia ha fatto rivivere in modo improvviso e drammatico.

Ma, al di là di Papa Francesco, che cerca di cambiare la Chiesa senza riuscire sempre a convincere della necessità, anzi dell’urgenza di un cambiamento di rotta nella direzione da prendere in un mondo che diventa sempre di più scristianizzato, quanto, a tuo parere, è stato il coinvolgimento della Chiesa istituzionale durante la pandemia che è ancora in corso?

È molto difficile dare una risposta a questa domanda: non abbiamo dati certi per rispondere. La mia è soltanto una percezione, che nasce dalla mia personale convinzione che la Chiesa, come istituzione, non solo in questo momento contingente di grande difficoltà, di sofferenza globale ma da molto, anzi da moltissimo tempo, è totalmente assente dai bisogni reali della società e, quindi, il suo dislocamento sociale e culturale oggi, è diventato più evidente. Ricordiamo che tanti vescovi e preti si collocano in posizioni lontane o non molto vicine a quelle del Papa. Un esempio fra tanti è quello di Mons. Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli e personaggio ben noto televisivo, il quale, per quanto concerne il lockdown, senza tener conto che le sue parole potevano essere un invito alla disubbidienza civile, afferma con una certa foga: “È un diritto per la gente pregare. È  un arbitrio, è una dittatura questa, di impedire il culto perché è uno dei diritti fondamentali e su questo non si possono fare sconti”. Il Monsignore non ha tenuto conto che è un dovere dello Stato difendere la salute dei cittadini anche se cattolici. Altro, a mio parere, poteva fare l’Eccellenza per consolare e incoraggiare e aiutare i molti sofferenti a causa del virus, che forse non ha fatto. Molti preti, nelle parrocchie, in questa contingenza, si sono arrangiati come hanno potuto, celebrando in modo solitario le loro messe, mantenendo il loro ruolo tradizionale ma incompleto di uomini addetti al culto. Ma una domanda provocatoria mi sorge spontanea, accompagnata dall’ammirazione dovuta a quei preti che hanno rischiato la loro vita o sono morti per stare vicini ai loro fratelli colpiti dal virus: siamo proprio sicuri che l’essere «uomini del culto», è il ruolo del prete da sempre ma in modo particolare durante questa pandemia che probabilmente non è l’ultima o vi è un altro ruolo, insito nel ministero che sono chiamati a svolgere, che forse tanti preti e vescovi non si sono preoccupati di riscoprire?

La Chiesa istituzione, lo diciamo da molto tempo, deve cambiare, approfittando anche di questo momento di grande incertezza del nostro futuro, ma, in soldoni, quali sono i cambiamenti più urgenti che, alla luce della pandemia, a tuo parere, deve operare?

Non voglio sostituirmi allo Spirito Santo che sicuramente ha parlato e continua a parlare all’orecchio dei nostri vescovi, molti dei quali, per non essere accusati di “modernismo”, che è lo “spauracchio” che accompagna ogni curriculum clericale dall’inizio del secolo scorso, svolgono la loro missione episcopale, in attesa che dall’alto, cioè dai sacri palazzi, che spesso non ascoltano neppure la voce del Papa o dalla Cei,  giungano le direzioni da prendere e, pertanto, la rivoluzione della Chiesa, anche in questo tragico momento, che dovrebbe avvenire dal basso, dalle Chiese locali, diventa una rivoluzione “sine die”. In questi giorni ho letto, in Internet, molti interventi e lettere pastorali dei vescovi, che si limitano a incoraggiare i fedeli a pregare Dio per la fine di questa pandemia, come durante la peste dei secoli scorsi, quando si pregava: “a peste, fame et bello libera nos Domine” e cioè: “dalla peste, dalla fame e dalla guerra liberaci, o Signore” ma non fanno altro o al massimo delegano le “caritas” diocesane ad intervenire per aiutare i poveri che aumentano sempre di più.  A proposito delle preghiere per porre fine a questa pandemia, ho letto anche alcuni interventi di teologi che “continuano a girare intorno al dilemma di Epicuro (IV sec. a.C.): se cioè Dio può e non vuole o vuole e non può evitarci queste sofferenze…”. Negli uni e negli altri c’è e non è difficile scoprirla, un’idea errata di Dio, che è pensato come a immagine dell’uomo, anzi come un “tappabuchi”. La Chiesa se vuole svolgere il suo necessario ruolo nella società post- pandemica, deve necessariamente, seguendo l’esempio di Papa Francesco, abbandonare questa idea falsa di Dio e realizzare l’effettiva difesa dei poveri di tutta la Terra, abbandonando i privilegi, le ricchezze, i possedimenti, i titoli bancari, l’appoggio politico, la corruzione, il fare da sostegno ad un capitalismo che si regge sull’ingiustizia sociale. Nessun dogma e nessuna norma morale lo proibisce, anzi assordante oggi si fa sentire la voce di Gesù che dice: “Vai, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri, poi vieni a seguirmi”. La Chiesa, inoltre, deve fare propria la cultura ecologica e femminile e accettare radicalmente il principio della laicità sia nell’ordine sociopolitico che spirituale. La sacralità dell’uomo è insita nella sua natura in quanto creatura di Dio e non nell’«imposizione delle mani» che impegna al servizio ai fratelli e non sacralizza una persona rendendola superiore agli altri battezzati.

Per un totale cambiamento culturale la Chiesa, quindi, si deve rivedere l’apparato dogmatico?

Occorre che tutti vescovi, preti e laici, assieme, prendano in mano i decreti del Concilio Vaticano II, che molti preti mai citano nelle loro omelie e molti forse non conoscono. In ciò aiutati dalle Scuole teologiche, che non possono non aprirsi ad una più attenta rilettura della Bibbia e dell’intera tradizione teologica, ad una reinterpretazione approfondita di tutti i dogmi e categorie e una riforma assoluta del modello clericale di Chiesa. Diciamolo chiaramente: la Chiesa cattolica è obbligata a reinventare radicalmente un altro modello non clericale-gerarchico-maschile, a rinnovare i suoi linguaggi, le credenze, i riti, le norme e ciò prima che la sua crisi si accentui. Il coronavirus sta portando alla luce il bisogno della gente di una Chiesa diversa, che poi è la Chiesa di Papa Francesco.

In ogni caso, quindi questa pandemia potrebbe costituire un segno dei tempi?

Certamente, la pandemia invita o obbliga la Chiesa, se non vuole finire, a fare un salto in avanti storico che segna il suo stesso futuro, questo è certamente un compito arduo ma non impossibile, al di là dei movimenti “tradizionalisti”, particolarmente americani che lottano, a suon di dollari, per restituire il futuro a un passato che riteniamo ormai lontano nel tempo che non dovrà più ritornare.