Solo il 54% dei medici si vede ancora in un ospedale pubblico tra due anni e il 75% ritiene che il proprio lavoro non sia stato valorizzato. Più positivo il giudizio dei dirigenti sanitari (biologi, chimici, fisici, psicologi, farmacisti)…
La legge di bilancio 2021 fornisce, insieme con un apprezzabile ristoro economico, una panoramica sconsolante del lavoro dei medici ospedalieri al tempo dell’epidemia da COVID-19. Tra lavoro somministrato tramite agenzie, che per il fastidio incassano 5 milioni ognuna, lavoro a cottimo per personale dipendente, lavoro forzato per i giovani medici, sembra finita la stagione del lavoro senza aggettivi.
Il che conferma il quadro di gravissima sofferenza, non solo dei professionisti, ma anche del sistema sanitario nel suo complesso, che emerge dalle 2461 risposte a un questionario promosso nel mese di ottobre dall’Anaao Assomed tra i suoi iscritti.
Una sofferenza che viene da lontano, amplificata dalla pandemia che ha reso insostenibili intensità assistenziale e carichi di lavoro, tanto che solo il 54.3% dei medici ospedalieri di oggi pensa di lavorare ancora in un ospedale pubblico nei prossimi 2 anni. E oltre il 75% ritiene che il proprio lavoro non sia stato valorizzato a dovere durante la pandemia, mentre i dirigenti sanitari danno, in media, un giudizio più positivo.
Le ragioni che spingono ad abbandonare gli ospedali, fenomeno già registrato in Inghilterra e in Svezia ed ora anche in Germania, sono riassumibili in un comprensibile spirito di sopravvivenza. L’eccesso dei carichi di lavoro, legato a una carenza numerica persistente al di la della giostra dei numeri sulle assunzioni, la rischiosità del lavoro, la sua cattiva organizzazione e lo scarso coinvolgimento nelle decisioni che lo riguardano, un problema per il 60.3% dei medici, insieme con una retribuzione non adeguata all’impegno richiesto, rappresentano i fattori determinanti. I medici ospedalieri, come anche i dirigenti sanitari, si sentono schiacciati da una macchina che esige troppo e che nemmeno ascolta la loro voce, svalutati e frustrati da un’organizzazione del lavoro che non sembra avere tra le priorità i loro bisogni e le loro necessità, sia come lavoratori che come persone. È ormai chiaro che il perseguimento della sola efficienza, misurata guardando ai bilanci e agli indicatori numerici e perseguita attraverso progressive riduzioni delle risorse disponibili, è un nemico della resilienza del sistema nel suo insieme.
L’emergenza da COVID-19 ha messo dolorosamente a nudo questa fragilità e il quadro che emerge lascia presagire un avvenire difficile per la sanità pubblica italiana, il cui declino potrebbe arrivare entro pochi anni se le scenario prospettato dagli stessi medici ospedalieri dovesse realizzarsi.
Per evitare il disastro serve un cambiamento radicale rispetto alle politiche del passato, cominciando a rinunciare all’illusione di potere governare un sistema complesso esclusivamente attraverso un illusorio controllo dei conti. Occorre certamente aumentare le risorse e le retribuzioni ma, fattore altrettanto importante, secondo il nostro campione, anche coinvolgere i professionisti nei processi decisionali che governano la macchina ospedaliera.
Tappare i buchi non basterà senza rendere compatibile la professione ospedaliera con le esigenze della vita al di fuori dell’ospedale, specie per le donne che curano, avviate a costituire la maggioranza dei curanti, le quali si sentono, e sono, la parte della categoria più in difficoltà. Quasi il 75% delle donne si dichiara insoddisfatto, in qualche misura, della conciliazione tra vita privata e lavoro, con il 20% molto insoddisfatto.
Si può ricavare da questa analisi anche una ragione di speranza. Le risposte che abbiamo ricevuto indicano che, al di là delle difficoltà e degli ostacoli, i medici ospedalieri e i dirigenti sanitari conservano una grande passione per il loro mestiere, un amore per la professione capace di rendere sopportabile la fatica e sostenere i grandi sforzi e i sacrifici nella vita personale che la società richiede ai medici che lavorano in ospedale, un senso di orgoglio per quello che fanno (curare e salvare vite). Nonostante pochi definiscano “prestigiosa” la professione, per molti essa rimane “affascinante” e, almeno per quanto riguarda il rapporto con i pazienti, capace di dare gratificazione.
Il compito dei decisori politici di oggi e dei prossimi anni dovrebbe, dunque, essere quello di valorizzare queste spinte positive e questo grande capitale di qualità umane e professionali. La risposta alle sfide sanitarie di oggi e di domani, che non possiamo prevedere nei tempi e nei modi più di quanto abbiamo potuto prevedere la pandemia del 2020, dipende in larga parte da come sceglieranno di trattare i medici ospedalieri e i dirigenti sanitari durante e al termine dell’emergenza che stiamo vivendo.