LA PRESUNTA SERIETA’ DEL PARTITO COMUNISTA ITALIANO

Com’era prevedibile il 100° anniversario della nascita del Pci (21 gennaio 1921) in quel di Livorno ha scatenato i più svariati commenti su tutti i giornali. Tuttavia si tratta di un anniversario su cui riflettere, senza complessi d’inferiorità, scrive Vincenzo Pitotti su alleanzacattolica.org.

In questi mesi per ricordare questo evento sono stati pubblicati libri, articoli e saggi, nonché documentari televisivi, il tutto con un’unica caratteristica: un giudizio positivo con toni retorici di quell’evento.

«Ma al di là della retorica e dell’enfasi con la quale ancora oggi si riparla di quegli eventi, occorre spiegare ai giovani, che probabilmente ignorano questa storia, che su di essa c’è molto da capire e nulla da festeggiare, perché fin dai suoi primordi il Partito Comunista Italiano si legò a doppio filo con il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, di quello che fu l’impero socialcomunista, il più grande impero ideocratico della storia, durato oltre settant’anni». (Vincenzo Pitotti, I cento anni del Partito comunista italiano, 24.1.21, alleanzacattolica.org).

Comunque sia studiare la storia del Pci, la sua teoria dell’azione, il suo modello operativo per conquistare il potere e per fare la Rivoluzione in Italia, non è un futile esercizio di tipo archeologico. Anche se il comunismo è morto, il PCI non esiste più, esistono i suoi eredi, lo studio del fenomeno Pci è sempre utile. Studiare il passato non è mai inutile, anche perchè come diceva il fondatore di Alleanza Cattolica, tra l’altro anche riferendosi al comunismo italiano, “Chi sbaglia Storia, sbaglia politica”.

Certo gli “eredi” del Pci hanno rinunciato molto alla dottrina, ma non al relativismo ed alle sue conseguenze operative. Anni fa avevo raccolto uno studio sulla“strategia gramsciana e la via italiana al comunismo”. Per questa ricostruzione sintetica mi avvalevo soprattutto di materiale fornito dagli stessi esponenti comunisti. In quel frangente il mio scopo era anche soprattutto di sfatare un luogo comune diffuso e tuttora condiviso, quello della «serietà» del PCI e quindi dei suoi «eredi», che determina complessi di inferiorità negli avversari, e troppo spesso ne condiziona, se non ne paralizza, l’azione.

Il mito della «serietà» del PCI.

«Serio» diventa sinonimo di «buono», «rispettabile», «affidabile»: «si può dissentire su qualche punto, anche su molti punti, ma non v’è nulla da temere realmente, il PCI (e poi il PDS, DS e ora Pd) è “serio” e quindi non deve far paura, anzi ha fatto tanto bene all’Italia». Questo il luogo comune corrente, anche in ambienti anticomunisti.

Vediamo se è vero. Seppure si può convenire sulla «serietà» del PCI , non si può non notare che anche la mafia, per esempio, è da considerare «seria», molto seria.

Non sto paragonando il PCI alla mafia, per il semplice motivo che il PCI è molto peggio della mafia. Questa, infatti, ha una vocazione territoriale limitata – o almeno fino a poco tempo fa così era – e limitati sono anche i suoi scopi. Essa si propone di prelevare forzosamente soltanto una parte dei beni prodotti nel territorio che controlla o che cerca di controllare. Il suo fine di potere e arricchimento per quanto odioso è limitato: non vuole tutto, né delle ricchezze (cioè dei beni materiali), né delle coscienze (cioè dei beni morali). Pretende «solo» omertà e soggezione rispetto ai propri affari, ma non di trasformare la mentalità ed il modo stesso dell’esistenza di tutta la comunità nazionale, anzi di tutto il mondo, mediante l’espropriazione e la gestione centralistica di tutti i beni materiali per meglio controllare le coscienze.

Il comunismo, e quindi il PCI come componente del movimento comunista internazionale, con «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo», come affermavano Marx , Engels e Fuerbach.

Una trasformazione che consiste, sosteneva Feliks Edmundovic Dzerzinskij (1877-1926), primo capo e organizzatore della CEKA (Crezvycajnaja Kommissija po bor’be s kontrrevoljuciej i sabotazem, («Commissione Straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio») nel «mutare la correlazione di forze politiche mediante il soggiogamento o lo sterminio di alcune classi della società», e quindi, ultimamente, in un rifiuto della natura umana ed in un tentativo, espressione di una smisurata volontà di potenza, di modificarla radicalmente, in vista dell’uomo nuovo, «superuomo» che non abbia più bisogno di Dio, della patria, della famiglia, della proprietà.

Con l’Ottobre rosso, «l’uomo si era levato, per la prima volta nella storia, non contro le circostanze sociali, ma contro se stesso, contro la propria natura», affermava Vladmir Maksimov.

Il PCI, che ha sempre presentato il regime nato dalla Rivoluzione Bolscevica come il laboratorio di un mondo nuovo e migliore e come luogo iniziale di esso, non ha mai dato alla sua azione politica una prospettiva minore.

Infatti, l’URSS staliniana è stata proposta come autentica metafora del paradiso in terra: «La parola “Stalin” e, l’altra, “URSS” – che ne definiva le realizzazioni storiche (la vittoria sul nazifascismo, l’edificazione in concreto del migliore dei mondi possibili) – ben al di là della bonaria immaginazione di un grand’uomo del popolo con i baffi alla quale si riferivano, valevano come una metafora laica del paradiso cattolico: esprimevano unitariamente l’ideale di una felicità assoluta, sintesi di moralità e benessere, in alternativa alle promesse inquietanti e corruttrici del capitalismo americanista». (Giuseppe Carlo Marino, Autoritratto del PCI staliniano.1946-1953, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 12.)

Pertanto verifichiamo se davvero «serio» equivale, con riferimento al PCI, a «buono», «affidabile», «rispettabile». Dunque, come la mafia, e più della mafia, il PCI mette la «serietà» al servizio di scopi e propositi da temere e contrastare tanto di più, quanto più «seriamente» perseguiti.

Il mito del «Grande Partito Comunista» di Gramsci, Togliatti.

E Berlinguer (Enrico Berlinguer, 1922-1984) etc., va sfatato anche in riferimento alla sua «serietà», se con questo attributo gli si vuol riconoscere almeno una certa quale superiorità etica e politica. Eticamente superiori certo non possono essere considerati coloro che fin dall’inizio hanno falsificato la propria storia, facendola iniziare da Antonio Gramsci (1891-1937) e Palmiro Togliatti (1893-1964), cancellando con perfetta ed orwelliana costumanza «terzinternazionalista» il vero fondatore del PCd’I al tempo della scissione di Livorno, quell’Amedeo Bordiga (1889-1970) – che non trasformo certo qui in eroe –, caduto in disgrazia siccome ritenuto trotzchista (o qualificato trotzchista per farlo cadere in disgrazia) – come non trasformo in eroe Trockij (Lev Davydovic Bronstein, 1879-1940), il quale ha semplicemente subito il trattamento che avrebbe riservato agli altri se a prevalere nella lotta all’interno del partito fosse stato lui. Né eticamente superiori sono mai stati quei dirigenti che hanno prima isolato i Gramsci ed i Terracini (Umberto Elia Terracini, 1895-1983) in mano al nemico fascista (salvo poi «riabilitarli» secondo convenienza), e poi pronunciato il famoso appello ai «fratelli in camicia nera» («Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!»). Per chi è interessato, a questi fatti, può confrontare, Ruggiero Zangrandi (1915-1970), Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Garzanti, Milano 1971, pp. 90-91; M. Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., pp. 44-45, 134; e Aldo Agosti (storico comunista), Palmiro Togliatti, UTET, Torino 1996, pp. 205-208, e pp. 210-212.

Mentre per quanto riguarda la «consegna del silenzio» riguardo Gramsci.. all’epoca della proclamazione dell’ Impero sui colli fatali di Roma, i comunisti, hanno ingoiato il «patto Molotov-Ribbentrop», dimenticando subito il loro antifascismo e la solidarietà internazionalistica con la Polonia aggredita. Per l’episodio faccio riferimento a Victor Zaslavsky, Il massacro di Katyn. Il crimine e la menzogna, Ideazione, Roma 1998, (pp. 8-11).

Altro episodio inquietante che ha visto protagonisti i comunisti è stato durante la guerra civile spagnola, qui hanno provveduto – e fra essi anche il «buono» Giuseppe Di Vittorio (1892-1957) – alla «liquidazione» di militanti ed organizzazioni di parte repubblicana che non fossero di stretta obbedienza comunista e «cominternista» (Cfr. Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné, L’ombra dell’NKVD in Spagna, in AA.VV., Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998, pp. 312-329 (313-317), e Gabriele Ranzato, La guerra di Spagna, Giunti, Firenze 1995, pp. 61-65 e p. 106). Poi eventualmente hanno provveduto a combattere contro gli insorgenti «nazionali», guidati da Francisco Franco, in perfetto stile, non tanto stalinista, quanto leninista. La tecnica era sempre la stessa: primo: dominare il partito, fino al punto di costruirsene uno «proprio», di scissione in scissione, selezionando tra i militanti i seguaci più fedeli al capo ed alla sua linea; secondo: conquistare al partito la leadership assoluta sul movimento rivoluzionario.

Operazione è stata fatta nei confronti del Comitato Centrale del Partito polacco, come si evince in Stéphane Courtois e Jean-Louis Panné, Il Comintern in azione, in AA.VV., Il libro nero del comunismo, (pp. 255-311); (281-282). Ma soprattutto nei confronti degli esuli antifascisti e comunisti di ogni nazionalità, e quindi anche italiani, rifugiatisi nella «patria dei lavoratori», per questo confronta, Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, Milano 1984, p. 144; M. Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, cit., pp. 11-19; e A. Agosti, op. cit., (pp. 214-223).

Questi compagni, tra cui Togliatti, hanno ritenuto la morte nei campi di concentramento sovietici di migliaia di prigionieri italiani «espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia». Vedi, Palmiro Togliatti, lettera a Vincenzo Bianco del 15 febbraio 1943, cit. in Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, il Mulino, Bologna 1998,( p.165). Sempre gli stessi “seri” compagni, sono quelli che alla fine degli anni ’40 si sono opposti presso i sovietici al rimpatrio dei prigionieri superstiti.

La guerra civile, la cosiddetta “Resistenza”.

Continuando con la stessa tecnica, gli stessi compagni “seri”, hanno utilizzato la guerra civile in Italia tra il 1943 ed il 1945, detta «Resistenza», per crescere organizzativamente, eliminare possibili avversari, ed affermarsi come forza egemone. Infatti, «Togliatti confidò […] che il PCI era “chiamato a diventare il ‘commissario politico collettivo’ dell’Italia combattente per ripulire la resistenza dalle persone non fidate e puntare sull’insurrezione socialista” perché molti reparti erano “inquinati, con la gente arrivata lì per caso, militari fuggiti dal fronte ed elementi anarchici”». «Fin dall’inizio obiettivo prioritario era stato l’egemonia sul movimento partigiano per assumerne la guida politica». Su questo si può confrontare anche Renzo De Felice, Rosso e nero, Baldini & Castoldi, Milano 1995, (pp. 69-71)

Ancora che quando «non pochi elementi partigiani (…) diedero vita alla tragica catena delle uccisioni nei confronti di ex fascisti, (…) di avversari politici, possidenti e soprattutto preti», non hanno lesinato «appoggio e simpatia per questi (…) gruppi armati», fino a giustificarne pubblicamente l’operato, con riferimento al cosiddetto «Triangolo della morte», secondo lo stesso Togliatti : «Sarebbero zone dove, sì, sono morti parecchi traditori della patria e ben sono morti, pagando con la vita i loro delitti ed il loro tradimento».

Poi i nostri “seri” compagni agli inizi della «guerra fredda», hanno svolto con piena consapevolezza il ruolo di «quinta colonna» in Italia del potere sovietico. Infatti un altro «dei miti più persistenti (…) è stato quello che interpreta la storia del PCI come una costante evoluzione verso una sempre maggiore autonomia da Mosca (…). Tale approccio ha portato a sottovalutare la caratteristica fondamentale di questo partito, l’appartenenza dei suoi dirigenti ad una élite rivoluzionaria guidata dall’Unione Sovietica» (E. Aga Rossi e V. Zaslavsky, op. cit., p. 20), circostanza documentata dai resoconti, custoditi negli archivi di Stato e di partito a Mosca, delle centinaia di colloqui tra i dirigenti del PCI e l’ambasciatore dell’URSS a Roma, Mikhail A. Kostylev, dal quale gli italiani si recano quotidianamente «a rapporto» nella difficoltà di incontrare direttamente la leadership sovietica. «I dirigenti del PCI si sentivano in primo luogo e soprattutto rappresentanti degli interessi sovietici, anche quando rivestivano posizioni ufficiali nel governo italiano» (ibidem, p. 257).

Pertanto questi compagni “seri” compivano vere e proprie azioni di spionaggio. Addirittura, si può leggere, che, «durante gli anni della partecipazione delle sinistre al governo (…) il contenuto delle sedute (…), i problemi discussi e le decisioni prese erano spesso comunicati lo stesso giorno all’ambasciatore Kostylev da Togliatti o da altri rappresentanti comunisti del governo» (ibidem, p. 131). Non solo spionaggio, ma anche di tradimento della patria, cospirando affinché Trieste fosse lasciata a Tito (Josip Broz, 1892-1980), ovvero dando informazioni ai sovietici sulla forza militare e sull’ economia nazionali, nonché sui nostri rappresentanti diplomatici nell’URSS e nei suoi Stati satelliti, pure appartenenti ad un’alleanza politico-militare nemica.

Sempre questi compagni comunisti “seri” sono quelli  che hanno preso, fino alla implosione dell’URSS, e per il tramite di quell’organizzazione criminale che era il KGB, danari che possono essere definiti senza retorica lordi del sangue e segnati dalla fame delle popolazioni vittime del comunismo, come possiamo leggere in Vladimir Bukovskij, Gli archivi segreti di Mosca, Spirali, Milano 1999 e in F. Bigazzi e V. Stepankov, “Il Viaggio di Falcone a Mosca”, Mondadori, 2015.

Inoltre questi presunti compagni “seri” sono quelli che hanno assistito alla edificazione del Muro ed alla sua esistenza senza fiatare, o addirittura esaltandone la funzione, e continuando fino all’ultimo ad avere relazioni più che amichevoli con i suoi custodi e gestori (dalla presenza degli stand della DDR ai festival de l’Unità, agli scambi politico-commerciali), al contributo di Ehrich Honecker alla celebrazione del compagno Berlinguer in un volume a lui dedicato dopo la sua morte. (Erich Honecker, Un uomo di pace, così voglio ricordarlo, in AA.VV., Enrico Berlinguer, Edizioni l’Unità, Roma 1985, pp. 252-254.).

Potremmo continuare a scrivere sulla «serietà» morale dei comunisti italiani, si deve rilevare altresì come anche dal punto di vista più strettamente ideologico e politico, per dirla con Di Pietro, non ne abbiano azzeccata una, secondo le loro stesse ammissioni.  Ci avevano detto, infatti, che senza Dio e senza Chiesa l’umanità sarebbe stata libera e felice, ed ora che non possono dirlo più (semplicemente perché si è rivelato manifestamente falso), pur pensandolo ancora, da un lato cercano di strumentalizzare il Papa ed il suo magistero, dall’altro sperano di risolvere la questione trasformando la religione «religiosa» – cioè la religione che crede in Dio – in una religione umanitaria, salvo essere pronti a far scattare una bella persecuzione amministrativa e culturale, contro l’«illegalità» e l’«intolleranza», che caratterizzano l’attività e la predicazione delle chiese.

DOMENICO BONVEGNA

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