di ANDREA FILLORAMO
Sappiamo che nei secoli, anzi nei millenni, l’uomo ha dovuto affrontare le pandemie, provocate sempre da cause naturali, ma che spesso erano viste, secondo la concezione dei tempi, oggi fortunatamente superata, come punizioni divine nei confronti degli uomini peccatori, tanto che in seguito all’epidemia degli anni 1347-1348, divenne un “topos” letterario, cioè un elemento tematico ricorrente o un argomento/situazione, che, pur cambiando, si è ripetuto in tutta la storia della letteratura.
Basta, infatti, leggere Il Decamerone di Boccaccio, I Promessi Sposi di Manzoni e la Peste di Camus, che troviamo questo topos.
Boccaccio nel Decamerone, infatti, vede la peste come una punizione divina inflitta agli uomini per il decadimento morale nella società, ma affida l’orrore e il giudizio alle cose stesse, evitando ogni intervento soggettivo che avrebbe fatto correre il rischio di cadere nel patetico o nel retorico. Il suo atteggiamento distaccato è stato appunto l’arma per suscitare l’orrore e la reazione morale di chi legge ed egli, nelle pagine introduttive, dice: “….pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in un altro continuandosi, inverso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata…”.
Ne I Promessi Sposi, Alessandro Manzoni crede che la peste non sia una maledizione divina che si abbatte sugli uomini, ma neppure che sia una calamità naturale contro cui non ci si può difendere. La sua diffusione è invece favorita da precise responsabilità umane, che un metodo d’indagine scientifico deve scoprire e denunciare. Manzoni descrisse, quindi, le cause fisiche della propagazione del morbo, la presenza delle istituzioni addette alla salvaguardia della popolazione, e lanciò la denuncia verso queste per l’incapacità nel trovare dei metodi curativi, tanto che è arrivato a trovare dei colpevoli, gli “untori”.
Ne La Peste, Camus, utilizzò la malattia come l’allegoria del male e della lotta contro di esso; tanto che il medico Rieux, protagonista insieme al signor Torrau, cercherà di sconfiggere il flagello. Alla fine, però, quest’ultimo si nasconderà e il medico capirà che la peste è come il male. Essa si nasconde e a un certo punto tornerà ad insidiare e attaccare gli uomini.
Camus, pertanto, scrive: “sapeva, infatti, quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere e che forse sarebbe venuto il giorno in cui la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.
Ricordiamo che la peste derivava dalle pulci dei roditori: i parassiti attaccavano gli animali domestici con cui l’uomo ha sempre convissuto.
Negli autori citati, perciò, troviamo questo elemento letterario, che, nella sostanza riprende quanto già Lucrezio, grazie allo storico Tucidide, aveva delineato quando evidenziava gli effetti della peste nell’Atene del 430 a.C.
Il poeta latino, infatti, aveva descritto come la gente morisse per le strade sputando sangue e di febbre altissima e di come i parenti abbandonassero i defunti per paura del contagio e i cadaveri fossero seppelliti in fosse comuni.
Impressionante nel “De rerum natura” di Lucrezio è il quadro dello svolgimento della vita in Atene, mentre si abbatteva nella città l’epidemia della peste, che non si allontana molto, da quanto avveniva, prima che il Covid-19, si abbattesse su di noi.
All’inizio dell’ultimo libro, il VI, nell’elogio di Epicuro l’autore, infatti, racconta di come gli uomini conducessero ormai delle vite scevre da qualsivoglia preoccupazione, con “la tavola preparata” e lo stomaco sempre pieno, crogiolandosi nel bieco orgoglio di vedere la propria discendenza affermarsi socialmente e godendo mollemente dei beni accumulati; per poi concludere paragonando l’animo umano a un vaso corrotto (ovvero forato e incapace di adempiere la sua funzione) e sporco, capace di tramutare le cose buone in guaste.
Compiendo una lettura parallela degli eventi storici, l’attuale pandemia da Covid-19 si potrebbe accostare alla peste del 1346/47, che doveva poi tornare ciclicamente nei decenni successivi e diventare una malattia endemica nel continente europeo fino al XVIII secolo. Essa era allora, come è apparso il Covid, all’inizio del 2019, una malattia sconosciuta e incurabile, che nessuno sapeva curare e che si diffondeva molto rapidamente.
La peste, allora, arrivò in Europa attraverso le vie commerciali con l’Oriente, prima a Costantinopoli, poi in Sicilia, precisamente a Messina, dove allora scomparve il 71,6%, della popolazione cittadina: grazie al doppio censimento operato dalle autorità locali all’inizio del morbo e un anno dopo la sua cessazione, sappiamo che da 40.321 abitanti essa scemò a 12.480. Dalla città peloritana in seguito la peste raggiunse tutto il continente. Gli storici stimano che, soprattutto nelle città, abbia ucciso circa un terzo della popolazione e poi lentamente si spense.
La domanda che ci poniamo è la seguente: Cosa è successo dopo la pandemia?
È paradossale dirlo ma gli effetti distruttivi della peste condussero a una rinascita delle città, della cultura, delle arti e dell’economia.
Ciò ci obbliga a giungere a una conclusione ottimistica per quanto concerne la pandemia del Covid-19, che stiamo vivendo e ci fa superare la depressione che colpisce molti di noi. Come accadde allora, anche maggiormente oggi, superata la crisi del Covid-19, grazie alla massiccia campagna vaccinale in atto, che comincia a dare i suoi effetti e alle terapie che la scienza medica moderna ci offrirà, potremo assistere – ne siamo sicuri – a un nuovo Rinascimento in tanti settori della nostra vita. Cambierà la vita dell’uomo, figlio delle rivoluzioni industriali e della sfida tecnologica e scientifica, sulla terra e il suo stesso destino. Oggi l’uomo è messo in ginocchio dal Coronavirus, ma sicuramente sarà in grado di risollevarsi: pianificherà, così, la sua rinascita e da homo faber, forgerà il suo futuro.