Entro il 2030 l’Organizzazione Mondiale della Sanità chiede di eradicare l’epatite C (HCV), un’infezione del fegato che colpisce oltre 70 milioni di individui in tutto il mondo. Una malattia asintomatica che si manifesta quando è in fase molto avanzata e può sfociare in cirrosi, tumore al fegato e provocare altre complicazioni a livello epatico. Grazie ai nuovi antivirali ad azione diretta si può curare con un’efficacia del 95%. Ma il problema di questa infezione è trovarla.
Per vedere a che punto siamo in Italia, Motore Sanità ha promosso l’evento ‘EPATITE C COME RIPARTIRE?’, con l’intento di analizzare le strategie nazionali e regionali per l’emersione del sommerso HCV e la ottimizzazione della presa in carico dei soggetti HCV positivi, analizzando soluzioni e criticità e anche i risultati ad oggi ottenuti nelle diverse aziende sanitarie del Veneto.
“Nell’ottica del raggiungimento dell’obiettivo dell’eliminazione di HCV in Italia, la scelta più appropriata sarebbe quella di uno screening universale che raggiungesse l’intera popolazione. Tale tipo di intervento non è però ipotizzabile al momento, per ragioni di fattibilità e di costi”, ha dichiarato Loreta A. Kondili, Istituto Superiore di Sanità. “Secondo modelli di stima attualizzati, nel nostro Paese sono 100mila i pazienti con malattia di fegato avanzata da un’infezione da HCV attiva non ancora diagnosticata, la maggior parte di età fra i 60 e i 70 anni. A questi si aggiungono altri 280mila individui con infezione da HCV attiva con età media di 46 anni, ignari della malattia in quanto asintomatica, ma del tutto reversibile dopo una terapia che garantisce l’eradicazione virale in poche settimane e senza effetti collaterali. Sebbene la scelta di attribuire priorità nello screening ad alcune popolazioni ad alto rischio e alla coorte 1969-1989 sia stata dettata da fondate considerazioni di tipo epidemiologico ed economico, è essenziale ribadire l’assoluta importanza di garantire dopo il primo biennio l’accesso allo screening per HCV alla coorte dei nati fra il 1948 e il 1968 e ad altri gruppi ad alto rischio, quali coloro con un danno del fegato, potenzialmente da virus dell’epatite C non diagnosticato e popolazioni con caratteristiche di vulnerabilità, garantendo una ulteriore programmazione e dei fondi dedicati. Le Regioni sono ora chiamate a stilare una strategia e definire un modello organizzativo per realizzare gli screening attraverso anche un piano di comunicazione strategica efficace e indispensabile per evitare di non beneficiare dei fondi stanziati dallo Stato”.
“Al di là di informare la popolazione, correttissimo, il ruolo del medico di base è fondamentale”, replica Giada Carolo, Dirigente Medico UOC Malattie infettive AOUI Verona. “Molto spesso da me arrivano pazienti consapevoli di avere la malattia, ma ignari dei progressi della medicina in questi anni. Ora è fondamentale che un paziente con epatite cronica, di qualunque origine, si sottoponga a specifici esami per capire l’eziologia della sua epatopatia, che può essere anche multifattoriale. Niente ci vieta che un alcolista abbia anche l’epatite C, niente ci vieta che un obeso sia anche un alcolista: il paziente va studiato a livello di medicina generale e specialistico. Aggiungo che io, nelle ultime due settimane, ho visto 4 episodi di epatite C acute: 1 è un paziente 30enne già noto per patologie di rischio per malattie sessualmente trasmissibili, gli altri 3 sono 3 signore tra i 45 e i 60 anni senza alcun fattore di rischio noto. Da qui la necessità di scrinare il più precocemente possibile la popolazione, in modo da bonificare il bacino di infezioni che non riusciamo altrimenti a controllare”.