I due giorni di eventi culturali a Torino e a Superga di sabato e domenica prossima della “Festa degli Stati di Savoia e del rinnovo dei voti – Arnovassion dij vot”, organizzati dalla delegazione “Piemonte e Stati di Savoia”, e dal movimento culturale “Croce Reale – Rinnovamento nella Tradizione”, manifestazioni legati alla ricorrenza della liberazione di Torino dall’assedio franco-spagnolo del 1706, mi ha dato l’impulso a leggere l’interessante volume che avevo nella mia biblioteca, “L’Assedio. Torino 1706”, del giornalista Fabio Galvano, pubblicato da Utet nel 2005. Io ho l’edizione speciale uscita per conto del quotidiano La Stampa nel 2006. Si tratta di XVIII capitoli, con una appendice, “L’Arpa discordata”, traduzione di Giovanni Ronco.
Trecento anni fa Torino fu protagonista di un’incredibile pagina di storia: il piccolo ducato guidato dal Duca Vittorio Amedeo II affrontò e sconfisse la grande potenza del re Sole, Luigi XIV. La città, cinta da un lungo assedio, durato quattro mesi, resistette e poi vinse, contribuendo a capovolgere gli equilibri politici in Europa. Con quella vittoria, chiarisce Galvano, i Savoia diventarono anche re e assunsero il ruolo-guida per il futuro dell’Italia.
Praticamente il volume di Galvano è stato pubblicato proprio in occasione del tricentenario del “grande assedio” di Torino. In diecimila tra piemontesi e imperiali, chiusi nelle mura della città, resisterono vittoriosamente all’assalto di quarantamila franco-spagnoli guidati dal generale La Feuillade. Il periodo storico riguarda la guerra per la successione al trono di Spagna. Pertanto da una parte c’è la Francia di Luigi XIV, la Spagna, dall’altra l’Impero Asburgico, l’Inghilterra, l’Olanda, altri principi tedeschi e italiani, tra cui il Duca di Savoia, Vittorio Amedeo II. Si combatte ovunque e perdere Torino significa per gli imperiali e per i loro alleati perdere l’Italia settentrionale. Mentre per il Duca di Savoia sono in gioco il destino del suo Stato e la libertà del suo popolo. In pratica il piccolo ducato è come una “terra di nessuno”, i francesi quando vogliono lo attraversano per raggiungere Milano.
L’assedio dell’esercito francese, inizia nel maggio 1706, si schiera davanti alla città, e in questo momento si vede il valore del popolo piemontese, che unito all’esercito del suo duca resiste compatto ai bombardamenti dei cannoni francesi. Il testo di Galvano racconta minuziosamente tutto ciò che è accaduto nei quattro mesi di assedio, utilizzando preziosi studi di altri studiosi, in particolare quelli del conte Giuseppe Maria Solaro della Margherita, del sacerdote Francesco Tarizzo, Pietro Fea, G. Amoretti, Ferdinando Rondolino, Luigi Cibrario. Oltre al cronista Francesco Ludovico Soleri e il suo Giornale dell’Assedio e difesa di Torino.
Nel primo capitolo, si descrive la grande fuga del duca e la sua famiglia. Il gesto non deve scandalizzare, ma il duca ha ritenuto essere più utile combattere i francesi da fuori delle mura della città. “La volpe se ne va”, hanno detto allora, il 17 giugno, il duca sa di giocarsi tutto, la dinastia, la terra, anche la sua vita. E comunque la sua strategia è stata vincente, a giudizio degli storici che hanno studiato questi avvenimenti. Più avanti il libro descrive il carattere del duca, i suoi rapporti con la moglie, ma anche i suoi flirt amorosi. E poi i suoi interventi politici, i voltafaccia, le alleanze. Il decisivo passaggio di alleanza da Luigi XIV all’Impero di Leopoldo. Tuttavia vengono evidenziati anche i meriti politici e militari. In città come comandante supremo viene lasciato il conte Wierch von Daun, valente tenente maresciallo dell’Impero asburgico. Gli altri valenti capi nella difesa della città sono stati il conte Pietro de Luc de la Roche d’Allery. La città è piccola, cresciuta intorno al borgo medievale, che a sua volta ricalca l’Augusta Taurinorum. E’ tutta rinchiusa nelle sue antiche mura, protetta su due lati dal Po e dalla Dora. Il censimento del 1706, ha registrato 41.822 abitanti. “E’ una città che sente la propria debolezza, davanti alle forze franco-spagnole che sono superiori alle sue in un rapporto di quattro a uno. Trema soprattutto sotto l’impeto dei cannoni e dei mortai francesi”. I colpi, soprattutto, precisa Galvano sono rivolti alla Cittadella, contro i suoi muri. Poi ci sono tutti gli altri bombardamenti più o meno intenzionali nei confronti della città, dei suoi palazzi più importanti, delle chiese.
Il testo è denso di particolari raccontati egregiamente da Galvano. Il suo racconto è coinvolgente, vengono nominate le vie, le piazze, i borghi, le zone della città e poi le varie Porte, Susina, Palazzo, Nuova, la Mezzaluna della Porta di Soccorso, la più contesa. Una città che sembrava rassegnata ai continui bombardamenti. Come in tutte le guerre, Galvano non può nascondere che anche in questo assedio, c’è gente che scappa, che abbandona, in pratica ci sono i disertori. “Non si possono accettare atti di viltà, di fronte al nemico; soprattutto non si può accettare che uomini abili al combattimento s’imboschino nella provincia”. Così si interviene con misure drastiche per evitare l’esodo, ma anche il collaborazionismo, si va a caccia delle spie, tutti fenomeni sempre presenti in tutte le guerre. I disertori, evidenzia l’autore del libro, è un fenomeno vecchio, una spina nel fianco non solo dei piemontesi, ma anche per l’esercito francese. Viene adeguatamente descritto il clima che si respira nella città, evidenziata la concordia sociale tra i soldati e i cittadini, tra ricchi e poveri, nobili e plebei, “tutti sembrano gareggiare di coraggio , di carità, di spirito di sacrificio”. “I signori – precisa Galvano – oltre a pagare di persona prestando servizio nelle forze regolari, nella milizia e negli uffici civili, mettono a disposizione le loro case, i lini, le carrozze”. Inoltre, “offrono anche i loro belli e costosi cavalli per il trasporto dei materiali destinati alle fortificazioni tutto attorno alla città, dove i popolani, come registrano le cronache, lavorano alla loro costruzione, portando terra, mattoni, fascine”. Altro particolare che evidenzia il giornalista è che i combattenti nella difesa di Torino erano di diverse nazionalità: piemontesi e tedeschi, svizzeri e irlandesi, persino francesi (dalla Savoia). Tutti nonostante lingue diverse convivevano e trattavano insieme e facevano a gara per distinguersi nella battaglia. Certo c’erano le distinzioni, le divisioni, i privilegi, “ma tutti facevano capo alla Corte ed alla persona del Sovrano…”. E proprio “questa concordia fra principe e popolo, – scrive lo storico Fea – fra ricchi e poveri, fra laici ed ecclesiastici, fra soldati e cittadini che va attribuito il finale trionfo del Piemonte nella sua gigantesca lotta contro lo straniero nel 1706; e la prova meravigliosa di virilità, di energia, di coesione che esso diede al mondo in quell’ora decisiva della sua vita […]”.
Il secondo capitolo il testo mette in luce le proporzioni della contesa, tra il piccolo ducato sabaudo e la potenza del re Sole. I numeri parlano chiaro, 10 mila contro 40mila. In seguito Galvano entra nei particolari, delle formazioni degli eserciti, distinguendo i vari reparti di combattimento. Poi il testo fa una marea di nomi degli ufficiali a cui sono affidati i reggimenti più importanti. Al di sopra di tutti si stagliava quello più importante Virico Daun, che in continuazione mandava lettere al duca, chiedendo soprattutto polvere da sparo, e al Principe Eugenio, che doveva venire in soccorso dei torinesi. Il quarto capitolo descrive, “La Torino dei Savoia”, si sostiene subito che non ha la dimensione della capitale di un regno. Ma soprattutto si fa un quadretto un poco desolante, molti sono i quartieri poveri e inagibili, viuzze strette, dove vive la plebe. Tuttavia una città che aveva bisogno di necessarie ristrutturazioni. Il panorama di Torino è triste dal punto di osservazione del monte dei Cappuccini, sulla collina torinese.
Dal sesto capitolo si ritorna a descrivere la battaglia, l’assedio fatto di bombe, di mine e di talpe. Leggendo il testo, tra i miei appunti ho aggiunto che è una descrizione quasi monotona di continui bombardamenti, di attacchi e controattacchi. Fare un bilancio di tutti i bombardamenti è quasi impossibile, Galvano nota che lo storico Rondolino, con pazienza certosina compilerà un magnifico elenco, desunto dai documenti ufficiali dell’epoca, delle case bombardate durante l’assedio, fra l’8 giugno e il 2 settembre, indicando in ognuna il proprietario, i danni subiti, il numero dei morti e dei feriti. Molti morti venivano sepolti nelle fosse comuni, ricordiamo che erano mesi caldi e c’era il pericolo di epidemie. Galvano da conto della “guerra delle talpe”, fatte nelle gallerie sotto la città, parallele a due a due. Gallerie scavate dai piemontesi ma anche dai francesi. E qui esce fuori un protagonista di questa guerra, considerato il più importante, Pietro Micca, conosciuto come il “salvatore di Torino”. Anche su questa vicenda bisogna essere cauti e Galvano se ne occupa abbondantemente addirittura in due capitoli. Probabilmente il suo coraggio non ha determinato la storia del grande assedio. “I pochi francesi che Pietro Micca ferma non hanno infatti grandi sbocchi, se non gli spalti della Cittadella, dove sarebbero immediatamente accerchiati dai granatieri piemontesi di guardia e neutralizzati”. Praticamente quello di Micca è stato un episodio passato alla storia come decisivo, ma in realtà non è così. Certo dopo la sua morte diventa l’eroe per eccellenza dell’assedio di Torino. “I riferimenti storici si moltiplicheranno negli anni, ma sovente costruiti ad arte, destinati prima a rinserrare in chiave eroica lo spirito risorgimentale, poi il nazionalismo degli anni fascisti”. A me pare che la costruzione del mito di Pietro Micca assomiglia molto a quell’altro mito costruito a tavolino che é Giuseppe Garibaldi, come ha ben documentato la storica inglese Lucy Riall nel suo bellissimo pamphlet, “Garibaldi. L’invenzione di un eroe” (Laterza, 2017).
Galvano fa riferimento ai vari storici che si sono occupati della vicenda Pietro Micca, alle cifre fasulle sul numero dei morti francesi, qualcuno addirittura come il francese Lemercier ne conta quattromila di morti. In pratica si ingigantiscono le conseguenze dell’esplosione provocata da Micca, definito perfino un “novello Sansone” che con le sue gesta aveva eguagliato la gloria del principe Eugenio e del duca Vittorio Amedeo II. Forse si cerca di sminuire i meriti dei due cugini principi, soprattutto del primo che combatteva per il Sacro Romano Impero e questo può dare fastidio ai padri del risorgimento.
Ci sarebbe un’altra figura combattente, questa volta una donna che si è distinta nella battaglia per la conquista del castello di Pianezza, una tal Maria Bricca, ma non si è sicuri se sia esistita o sia frutto della fantasia dei torinesi.
Dal quattordicesimo capitolo il testo comincia a entrare nel vivo della battaglia per liberare Torino dall’assedio dei galloispani. Il principe Eugenio arrivato alle porte di Torino con il suo esercito si ricongiunge a quello di Vittorio Amedeo II e da Superga i due cugini osservano le postazioni degli assedianti e cominciano a organizzare i piani di battaglia. E qui Vittorio Amedeo II ha fatto il voto di costruire una basilica dedicata alla Madonna in caso di vittoria. “La loro presenza, insieme, affascina ed entusiasma: non solo gli ufficiali che li circondano e che ne condividono le quotidiane fatiche, ma anche i soldati. Ogni volta che i due Savoia appaiono insieme sono accolti da applausi e grida di devozione e incoraggiamento”.
A questo punto il saggio di Galvano affronta la questione religiosa in questa storia torinese. Si avvale degli studi di don Tarizzo, che fornisce mirabili paginette di quella che era Torino dell’assedio, dei suoi abitanti e dei soldati con la divinità, ma soprattutto dell’opera dei religiosi, della loro assistenza ai soldati in combattimento e ai bisognosi. In particolare emerge un prete della Congregazione dell’Oratorio fondato da S. Filippo Neri, Sebastiano Valfrè, che poi sarà beatificato, diventa il punto di riferimento dei torinesi. E’ lui che ha fatto costruire un piccolo altare in piazza San Carlo ogni mattina celebra la Messa e poi ogni sera all’imbrunire i soldati e tutti recitano il Santo Rosario. Padre Valfrè, sorridendo sotto il fuoco dei nemici, incoraggia i soldati nella battaglia, “li incoraggia, li conforta, li benedice, li assolve”. Poi c’è l’arcivescovo Vibò che nonostante i suoi 76 anni e la salute malferma accorre ovunque necessario a portare soccorso. Non mancano le fratellanze, le parrocchie, le confraternite laiche che accorrono nelle piazze per assistere i feriti e confortarli spiritualmente e materialmente. Oltre a Valfrè, c’è un’altra figura importante in questo periodo, si tratta di Maria Anna Fontanella, di famiglia nobile poi diventata beata Maria degli Angeli. Era sicura della vittoria, che andava ripetendo, alludendo alla Natività della Madonna: “La Bambina sarà la nostra liberatrice, alla Bambina saremo liberati”, infatti così è stato l’8 settembre Torino è libera dagli invasori franco ispanici.
Un ruolo fondamentale lo svolge il Santuario della Consolata e i suoi religiosi con le novene alla Madonna che protegge i torinesi. Intanto ci si avvia verso la battaglia risolutiva. Anche qui il Galvano è bravo nel descrivere scrupolosamente la scena degli eserciti in battaglia, ognuno con i suoi colori, con le sue bandiere e le sue uniformi. Si tratta di un grande spettacolo eccitante, “Dovunque, dentro e fuori la città, è un brulichio di uomini, una girandola di colori. Bandiere al vento e uniformi rassettate per la grande occasione offrono un colpo d’occhio impagabile. Dominano le bandiere rosse con la croce bianca dei Savoia, ma sono numerose anche le aquile asburgiche […]”. E’ come se stiamo assistendo, ci avverte, “a una rappresentazione teatrale della quale già si conoscono trame e conclusioni”. Naturalmente non sto qui a raccontare tutta la battaglia che praticamente è durata complessivamente tre quarti d’ora. Per mezzogiorno tutto era finito. Che ha dato la vittoria alle forze imperiali e piemontesi. I torinesi sostengono grazie alla Madonna Consolata, proprio alla vigilia della Natività della Nostra Gran Signora. E’ tutto interessante, soprattutto le varie strategie militari di battaglia messe in atto dal Principe Eugenio, da Vittorio Amedeo, da quel Duca d’Orleans, con La Feuillade, e tutti i francesi, che alla fine per i loro errori sono stati sbaragliati. Da quello che ho capito la battaglia si è svolta principalmente nella zona Nord di Torino, Madonna di Campagna, Lucento, Pianezza e il suo castello.
Il bilancio della battaglia è raccapricciante per l’epoca. Duemila morti e 6mila prigionieri di parte francese e poi tutto il bottino andato perduto. Ma anche l’esercito austro-savoiardo ha perso 52 ufficiali e 892 soldati e fra questi il principe di Brunswick-Beveren.
E’ bello descrivere i combattenti che entrano in città acclamati dal popolo torinese, i due cavalieri, cugini principi Savoia che vengono accolti sul sagrato del Duomo di Torino e poi tutti gli altri principi perlopiù tedeschi austriaci, Asburgo. I principi di Brandenburgh, di Wurttemberg, di Sassonia-Gotha, di Assia-Darmstadt, c’è il principe di Anhalt-Dessau, alcuni in disordine per il combattimento. C’è il vescovo Vibò con il clero ad attenderli e poco dopo si intona il Te Deum. Una giornata storica per Torino, per il suo popolo, per i sovrani di Casa Savoia. Per ora mi fermo, ci sarebbero tante altre cose da scrivere, da osservare, descrivere, raccontare. Conoscere la Storia è fondamentale, conoscere le proprie radici anche, soprattutto oggi dove tutto è fluido e messo in oblio, la memoria storica può aiutarci a superare ogni crisi.
DOMENICO BONVEGNA
dbonvegna@gmail.com