“Diversamente da altri fenomeni che animano il nostro sistema sociale, la criminalità piccola o grande che sia, difficilmente potrà essere compresa nelle sue mille sfaccettature, ma soprattutto nelle ragioni che la producono, da chi non ha vissuto il buio, la logica e i sentimenti che sono la base … “.
Inzia così il racconto di un uomo fino a qualche tempo fa inserito nella famiglia catanese di Nitto Santapaola. Il suo nome è Marcello D’Agata. Per circa dieci anni è stato al 41 bis (il regime di carcere duro riservato alla criminalità organizzata) e oggi è detenuto in Alta sicurezza nel carcere alle porte di Milano. Dove ha iniziato a dipingere: la redenzione di un uomo è un cambiamento troppo intimo per tentare di decrittarlo leggendo i rituali della vita di una persona detenuta o quelli mortiferi del suo passato, ma l’arte può aiutare. La sua è una storia tutta da scrivere e non è detto che prima o poi la racconterà: perché la giustizia, se non unita alla carità, resta imperfetta.
Oggi D’Agata ha voglia di spiegare ai giovani che abbracciare la mafia non è la soluzione per cambiare la loro esistenza. E il carcere così come lo si conosce oggi non è un luogo per educare chi ha sbagliato a cambiare vita. E non a caso l’emergenza all’interno delle carceri italiane puntualmente torna a occupare le pagine di cronaca. Richiamare l’attenzione delle istituzioni sul drammatico fenomeno dei suicidi nelle carceri. È l’obiettivo del sit-in di Antigone Sicilia che si terrà a Palermo davanti il Tribunale, domenica 25 settembre, alle ore 24. “Scendiamo in piazza – spiega Pino Apprendi dell’osservatorio Antigone – perché la politica è indifferente rispetto al gesto estremo compiuto da decine di detenuti ogni anno e a circa un migliaio di atti di autolesionismo. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di giovani in carcere per reati minori e perlopiù in condizioni di fragilità psicofisica. A chi è stato condannato è giusto far scontare le pene inflitte per i reati commessi, ma queste non possono e non devono trasformarsi in condanne a morte, bensì in una speranza di cambiamento, come peraltro è previsto dal nostro ordinamento.
Per non dimenticare che la Caritas ci ricorda che la giustizia, come il bene comune, è un principio orientativo dell’azione morale; ma aggiunge subito dopo che la giustizia deve essere inglobata in una concezione più completa, dell’amore/carità. E aggiunge: «Nella concezione cristiana la giustizia evolve dal simbolo della spada al simbolo della croce che vince e diventa il segno della giustizia nel cristianesimo».
Non a caso sono tanti i politici, le persone di cultura che ritengono il carcere è quasi una discarica sociale. I suoi unici obiettivi paiono essere indirizzati verso un’attenzione su assenza di rivolte e di fughe. E oltretutto, non sempre questo va come si vorrebbe. E la dignità dell’individuo? La situazione è addirittura paradossale se si pensa ai casi di due giudici che prima condannano al carcere ma poi, però, ammettono che la pena non può essere eseguita in forma dignitosa e per questo dicono che sarebbe meglio non mettere in carcere i condannati. Se guardiamo a tre elementi, capienza regolamentare, capienza tollerata e capienza effettiva, ecco che il problema carcerario del nostro Paese diventa un’emergenza.
La riflessione di Marcello D’Agata è articolata: C’è la possibilità per il volontariato di diventare un ponte tra il carcere e la realtà esterna. Come? Mettendo mano a dei cambiamenti dando prospettive a chi deve scontare la pena.
“Il carcere oltre a insegnare che delinquere non paga, deve essere in grado di offrire a chi in sincerità la cerca, una possibilità reale di reinserimento nella vita sociale. Solo così poi si potrà credere che la stragrande maggioranza di detenuti, una volta liberi, non tornerà più a delinquere, altrimenti si dovranno costruire 100 nuove carceri o dare mille amnistie, senza che tutto questo risolverà mai qualcosa. La detenzione deve esprimere qualcosa e non è il tipo di modalità severa o meno con cui si fa scontare una pena che educherà il detenuto, ma il significato che da questa proviene. Il messaggio che riesce a dare e la speranza di futuro che offre la società una volta scontata la pena”.
E’ chiaro che una proposta, una idea è seria e credibile quando riesce ad abbracciare gli interessi di tutti e non di una sola parte e il progetto carceri pensato da D’Agata ha la presunzione di attrarre l’attenzione di tutti perché racchiude e soddisfa diverse e rilevanti emergenze che da decenni affliggono il “Sistema Istituti di Pena”. Ma soprattutto si coniuga con altre esigenze di particolare interesse sociale: prima fra tutte, la sicurezza dei cittadini. Si parla del sovraffollamento nei vari dibattiti televisivi e non, ma viene ignorato la vera realtà del problema: il rapporto con il territorio, tra chi gestisce il carcere e le realtà locali, perché il passaggio dalla detenzione alle misure alternative all’esterno del carcere presuppone una rivoluzione culturale nel rapporto tra pena, carcere e società. E poiché ogni emergenza genera altri interessi per la soluzione sarà essenziale affrontare il progetto con serenità ma soprattutto con estremo rigore realistico verso un unico obiettivo che offra e soddisfi ciascuna parte in causa. E sarebbe impensabile cercare di ridurre il sovraffollamento nelle carceri tramite provvedimenti di clemenza o misure alternative come la detenzione domiciliare, che sono prive di qualsiasi forma di “rieducazione”, perché se da un lato si otterrebbe una diminuzione della popolazione detenuta, da un altro si avrebbe immediatamente un aumento di reati all’esterno, circostanza questa che non teme smentita perché è notorio che la maggioranza dei soggetti che usufruiscono di queste possibilità di libertà, subito dopo torna a commettere nuovi reati.
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