di VINCENZO ANDRAOUS
Un fagottino di pochi mesi di vita, un bimbo ancora in fasce, pochi kilogrammi di bellezza infinita, piccolissimo cielo dentro una culla deprivata di amore, dentro una stanza senza più colori. Creatura intoccabile e irraggiungibile a ogni miserabilità umana, eppure sono nuovamente parole, ancora parole, nefande e sporche più del male stesso perpetrato. Come è possibile prendere a botte, a calci, a pugni un esserino tanto indifeso, essenza della vita umana.
Ma tu chi sei piccolo uomo, grande niente, indecifrabile mercanzia andata a male, chi sei tu, per riuscire a fare una cosa del genere. Non riesco a capacitarmi di ciò che hai fatto, di quanto sei stato capace di fare, proprio mi diventa irrinunciabile la necessità di comprendere questa efferatezza, talmente atroce e dolorosa da non poterla neppure avvicinare. Come può una persona adulta, mettere la mani addosso a un bimbo di pochi mesi, prendere quel visino di Dio, percuoterlo senza alcuna pietà. Come puoi avere fatto una cosa del genere, come? No, non riesco a immaginare neppure lontanamente una pratica tanto vile e a dir poco infame.
Eppure tu ci sei riuscito. Tento disperatamente di capire questa violenza senza alcun senso, e l’unica cosa che mi viene facile intendere è che picchiare è il segno della debolezza degli adulti, in questo caso non c’è neppure da etichettare l’accaduto con un genitore autoritario privo di qualsiasi autorevolezza, che impone e non consegna alcun rispetto. Questa piccolissima innocente è stata ridotta in fin di vita da un uomo senza alcuna dignità, un esempio tragico di nullità valoriale e affettiva. Ma davvero tu chi sei, per aver commesso un atto così terribile, cosa può averti fatto un angelo di pochi giorni nella sua culla, il suo pianto, la sua richiesta di coccole, il suo bisogno di mangiare, di bere?
Ma tu chi sei per arrivare a oscurare quel sorriso di cielo, chi sei davvero tu. Che rapporto, che relazione, che presente hai disegnato con quella bimba di sole, di luna, chi sei tu per scaricare su una innocente la tua pochezza, chi sei tu, chi sei tu. Parlare a te di strategie educative, di esempi autorevoli, di emozioni genitoriali, è come interrogare un sasso, richiedere compassione a un corpo morto, attendere risposte da un bicchiere vuoto capovolto.
Chi sei tu, più me lo domando più mi ferisco nel profondo, sarebbe umano sinceramente troppo umano consolare la disperazione per questa immane tragedia, prendendoti a scaracchi, nell’intento di renderti la vita un inferno. Invece ancora e ancora e ancora mi costringo a chiedermi, a chiederti chi sei tu. Chissà se avrai come compagna di viaggio la colpa. Chi sei tu.