“Lavorare per molti soldi può rovinare il concetto che hai di te stesso. Quando disegnavo scarpe per le riviste prendevo una certa somma per ogni scarpa, così contavo le scarpe per calcolare quanto avrei guadagnato. Il mio tenore di vita dipendeva dal numero di scarpe che disegnavo – contandole sapevo di quando denaro potevo disporre” Così nel suo libro The Philosophy of Andy Warhol: from A to B and Back Again l’artista ricorda le sue prime esperienze di successo nel mondo della grafica pubblicitaria, in cui, con coraggio e originalità, si fece strada divenendo già molto giovane un artista commerciale di successo. Gli anni ’50 costituiscono infatti il vero e proprio esordio di Warhol sulla scena newyorchese; dopo essersi laureato al Carnegie Institute di Pittsburgh, il giovane Andy lascia la sua città natale per trasferirsi nella Grande Mela, città ideale per trasformare le sue ambizioni in realtà.
In questi anni, come testimonia Pat Hackett, curatrice dei diari dell’artista, egli non ebbe alcun tempo libero per divertirsi e svagarsi (recupererà nel decennio successivo, quando giungerà all’apice del suo successo), dal momento che si dedicò “anima e corpo” al lavoro, occupandosi di eseguire illustrazioni per importanti riviste (come Harper’s Bazar, il New Yorker, Glamour e Vogue) e svolgendo la mansione di disegnatore pubblicitario. Sarà proprio il mondo della pubblicità ad illuminare Warhol, rendendolo consapevole della rivoluzione che
avrebbe potuto innestare proprio attraverso quell’affascinante mezzo di comunicazione, sempre più presente nella vita quotidiana delle persone.
Il commentatore sociale: tra icone, fama e disastri
“Non c’è niente in arte che tutti non siano in grado di capire” Dalla Rivoluzione Francese, momento storico in cui per la prima volta il terzo stato ha iniziato ad affermarsi non soltanto sulla scena politica, ma anche su quella sociale e culturale, la borghesia ha progressivamente avuto l’opportunità di vedere quelli che erano i propri ideali rappresentati nell’arte, sempre meno influenzata dal gusto aristocratico che l’aveva caratterizzata per secoli. Questa fenomenologia culturale, che affonda le sue radici nella Rivoluzione del 1789, ha raggiunto l’apice della sua massima espressione con un’altra rivoluzione: quella della Pop Art, movimento artistico nato in America nei primi anni ‘60. Il termine Pop, che deriva dall’inglese popular, lascia bene intendere che si tratta di un’arte accessibile a tutti non tanto dal punto di vista economico (le opere di Andy Warhol possono spaziare dalle migliaia di euro sino ad arrivare ai 195 milioni di dollari della Shot Sage Blue Marilyn, il dipinto d’arte moderna più caro della storia), quanto da quello concettuale.
Coerentemente alla lezione di Pasolini, il “potere consumistico”, divenuto l’unico capace di imporre la propria volontà nella società post-bellica, è stato affiancato da una concezione edonistica della vita, per la quale, e questo è evidente nell’opera di Warhol, il piacere può essere provocato da oggetti divenuti indispensabili per il consumatore e addirittura “di culto” per la forza del messaggio che hanno saputo evocare in un determinato contesto storico, nonostante la loro appartenete e innocua semplicità. Ecco che la lattina di zuppa Campbell’s Soup si eleva da semplice prodotto di massa a potente simbolo di rappresentanza del popolo americano nella sua interezza, e l’immagine di Marilyn Monroe diviene una vera e propria icona popolare da adorare, al pari di un simbolo religioso.
La rivoluzione warholiana non si è però limitata solo ad innovare ciò che veniva rappresentato sulla tela, ma è arrivata a modernizzare completamente persino il modo stesso di fare arte, ossia la tecnica con cui venivano realizzate le opere.
La ripetizione e la rielaborazione delle immagini di beni di consumo industriale e di icone ha infatti comportato l’adozione di tecniche di serializzazione, che resero così Warhol più simile a una macchina piuttosto che ad un artista, coerentemente a quello che era uno dei suoi principali desideri:
“ La ragione per cui dipingo in questo modo è che voglio essere una macchina. Tutto quello che faccio, come una macchina, è ciò che voglio fare” Fotografia e serigrafia, le due componenti principali dell’inedito modus operandi, divennero in tal modo un unicum, trasformandosi nella traduzione artistica della serialità tipica della produzione industriale.
Questa tecnica all’avanguardia, il quale consisteva sostanzialmente in un processo semi-meccanizzato che facilitava enormemente la realizzazione delle opere e riduceva notevolmente i tempi di produzione, non venne accolto in maniera benevola dall’establishment artistico dell’epoca: inizialmente, la filosofia del giovane Andrew Warhola era vista infatti quasi come una provocazione all’Espressionismo Astratto,
movimento allora preponderante negli USA (Jasper Johns, che era già andato ben oltre l’insegnamento degli espressionisti astratti ed era considerato già estremamente innovativo per la sua epoca, si era rifiutato in principio di condividere la scena artistica con Warhol).
La tecnica della serigrafia, tanto criticata quanto rivoluzionaria, venne utilizzata da colui che venne additato in maniera sarcastica come “Andy il pubblicitario” già nel 1962 per realizzare la serie Campbell’s Soup Cans, composta da trentadue piccole tele di identiche dimensioni raffiguranti ciascuna gli iconici barattoli di zuppa Campbell’s: nonostante il giudizio severo della critica, che bollò le opere come “piatte e provocatorie”, fu con quella mostra organizzata alla Ferus Gallery di Los Angeles che Andy Warhol entrò nella storia dell’arte moderna.
È stato proprio il processo di democraticizzazione messo in atto dall’artista, che rappresentò su tela i principali simboli consumistici della società, ad averlo reso uno degli artisti più rappresentativi del secondo ‘900: aderendo alla cultura di massa e facendola entrare nel mondo concettuale dell’arte figurativa, egli ha saputo elogiare, come nessuno aveva mai fatto, gli Stati Uniti d’America, patria d’eccellenza del consumismo, e tutto ciò che hanno simboleggiato dall’immediato dopo-guerra sino agli anni ‘80.
Le foto sono di Giovanni Daniotti