Un accurato studio elvetico conferma il perdurare dei devastanti effetti successivi all’infezione, su infermieri e medici, che in particolare hanno contratto la forma primordiale del virus, quella dei primi mesi della Pandemia.
Oggi nel nostro Paese, incredibilmente, oltre a non essere stati classificati ufficialmente, i sintomi del Long Covid potrebbero perdurare anche per anni e non sono affatto riconosciuti come una malattia professionale…
«Secondo i dati ufficiali dell’Inail, ben 320mila infermieri sono stati infettati dal virus del Covid-19, dall’inizio della Pandemia fino a oggi. Ma quanti di questi, dovremmo davvero chiedercelo, soffrono degli effetti del Long Covid?
Secondo una indagine accurata a livello europeo, redatta in collaborazione con il Satse, il sindacato degli infermieri spagnoli, la media dei professionisti che nei Paesi Ue oggi soffre di postumi del contagio è di circa un sesto del totale dei contagiati. In Italia il numero attendibile è quello di almeno 20mila operatori sanitari, la maggior parte infermieri, che potrebbe essere alle prese con quella che è di fatto una vera malattia ma che, ahimè, non è considerata tale.
Ci riferiamo al fatto che nel nostro Paese, così come in Spagna, i sintomi legati al Long Covid non sono considerati una malattia professionale.
Le assenze direttamente legate al manifestarsi di una sindrome Long-Covid, sono oggi equiparate, in Italia, alla malattia comune, sia per il trattamento economico, sia per il trattamento normativo. A carico del lavoratore interessato ci saranno gli obblighi di certificazione, con la dovuta attenzione agli oneri di avviso e preavviso immediato in caso di assenze.
Così Antonio De Palma, Presidente Nazionale del Nursing Up.
«Lo stesso Rapporto ISS COVID-19 – n. 15/2021 (indicazioni ad interim sui principi di gestione del long covid) dice che: “la fisiopatologia delle manifestazioni cliniche persistenti non è nota, ma la sua definizione ha grande rilevanza sia per il trattamento dei sintomi che per approfondire il ruolo della infezione virale, dell’infiammazione e della risposta immune in tutte le fasi della malattia. Non viene definito nemmeno il potenziale ruolo della vaccinazione nell’influenzare, accanto alla severità della forma acuta, anche la comparsa e la gravità delle forme sub acute e croniche. Numerosi, in tal senso, sono ancora gli aspetti da definire”.
Quando si subisce un infortunio, il lavoratore ha la possibilità di riaprirlo, qualora dopo la ripresa dell’attività lavorativa presenti dei sintomi o disturbi fisici legati al precedente infortunio.
Per effettuare una riapertura infortunio Inail il lavoratore deve recarsi subito dal proprio medico curante (nei casi più urgenti anche al pronto soccorso) per farsi certificare che si tratta di una ricaduta del medesimo infortunio già denunciato e registrato dall’Inail. In questi casi l’Istituto assicuratore parla generalmente di Riammissione in temporanea.
Questo non è possibile per chi soffre di Long Covid, ad oggi difficile da dimostrare.
Eppure il Long Covid, ha tutte le caratteristiche per essere annoverato tra le malattie professionali; per questo andrebbe stilata una diagnosi ed una classificazione ufficiale che ancora manca, così come manca uno studio univoco ed ufficiale sull’impatto della malattia.
Purtroppo ad oggi mancano ancora chiari criteri, condivisi internazionalmente, per definire il long-covid. Questo inevitabilmente crea una incertezza nella diagnosi e una ampia variabilità nella identificazione di questa condizione.
Accanto a questo drammatico clima di incertezza, numerosi studi, per altro autorevoli, confermano la presenza di determinati sintomi che perdurano in particolare negli operatori sanitari, in questo caso gli infermieri, la categoria di lavoratori che si è maggiormente infettata.
Tra i gli effetti più noti del Long Covid, ce ne sono alcuni neurologici alquanto preoccupanti, che sono molto simili a quelli di una condizione da stress traumatico, ma in realtà, sempre più esperti, sostengono con certezza rientrino negli effetti postumi di chi ha contratto l’infezione.
Inoltre, tale indagine, condotta su giovani operatori sanitari, rivela che gli effetti del Long Covid sono molto più comuni e frequenti per chi ha contratto la forma cosiddetta “wild” del virus, ovvero quella dei primissimi mesi della Pandemia, a differenza delle varianti come Omicron che inciderebbero molto meno su questa patologia.
E’ la conclusione di una ricerca svizzera condotta su oltre mille operatori sanitari, che sarà presentata al Congresso della Società europea di microbiologia clinica e malattie infettive.
Disturbi del sonno, depressione del tono dell’umore (tristezza, irritabilità, insofferenza, mancanza di interesse nei confronti di attività che prima piacevano), ansia, stress, psicosi: sintomi preoccupanti, che lo stesso infermiere, e anche il medico curante, in un primo momento, pensa chiaramente siano relativi alle difficoltà lavorative, ai turni massacranti. Invece potrebbe trattarsi chiaramente di sintomi legati al Long Covid.
Inoltre, sembra accertato, da uno studio caso-controllo pubblicato su JAMA Health Forum, un aumento della percentuale di esiti avversi in una coorte di sopravvissuti alla fase acuta della malattia da COVID-19. Risultati che indicano la necessità di un monitoraggio continuo per le persone a rischio, in particolare per gli aspetti cardiovascolari e polmonari: lo afferma la coautrice Andrea DeVries, vicepresidente per la ricerca sui servizi sanitari presso Elevance Health, un fornitore statunitense di assicurazioni sanitarie, ricordando che dopo la comparsa dell’infezione da COVID-19 molte persone sperimentano sintomi noti come long-COVID o condizione post-COVID-19 (PCC), e che attualmente poco si sa sull’evoluzione di tale sintomatologia.
Durante il follow-up di un anno è stato sperimentato un maggiore utilizzo dell’assistenza sanitaria per un’ampia gamma di complicazioni: aritmie cardiache, embolia polmonare, ictus ischemico, malattia coronarica, insufficienza cardiaca, broncopneumopatia cronica ostruttiva e asma. E’ stato registrato anche un aumento della mortalità: 2,8% rispetto all’1,2% dei controlli».