La Commissione Europea ha imposto all’Italia di recuperare gli aiuti di Stato considerati illegali concessi a determinati enti non commerciali sotto forma di esenzione dall’imposta comunale sugli immobili (Ici) dal 2006 al 2011, compresi quelli di proprietà della Chiesa.
Come riferito da un portavoce Ue nel corso del punto stampa quotidiano, «Gli enti che svolgono attività non economiche, come quelle strettamente religiose, non saranno interessati dall’ordine [di recupero degli aiuti di Stato].Tuttavia, quando tali attività hanno natura economica il fatto che siano svolte da enti non commerciali non preclude la disciplina degli aiuti di Stato». La vicenda rischia di diventare una storia infinita. Cerchiamo di ripercorrerne le origini e gli sviluppi.
Secondo l’Ue l’Italia deve recuperare l’Ici anche sulle attività della Chiesa
Il 19 dicembre 2012, la Commissione Europea aveva giudicato incompatibili con le norme dell’Ue in materia di aiuti di Stato le esenzioni concesse agli enti non commerciali per fini specifici, previste dal 2006 al 2011 dal regime italiano di imposte comunali sugli immobili. La Ue aveva però poi deciso che l’Italia poteva essere esentata dal recuperare gli aiuti “illegali”, anche considerato che le banche dati fiscali e catastali non consentivano l’identificazione esatta dei beneficiari. L’organo di governo dell’Ue, in particolare, non aveva più ingiunto all’Italia di recuperare l’aiuto presso i beneficiari, poiché le autorità italiane avevano dimostrato che, nel caso di specie, sarebbe stato oggettivamente impossibile determinare quale porzione dell’immobile di proprietà dell’ente non commerciale fosse stata utilizzata esclusivamente per attività non commerciali – risultando quindi legittimamente esentata dal versamento dell’imposta – e quale fosse stata la porzione utilizzata per attività ritenute di natura non esclusivamente commerciale, la cui esenzione dal versamento dell’Ici avrebbe comportato la presenza di un aiuto di Stato ai sensi delle norme dell’Ue in materia. Nel 2018, tuttavia, la Corte di Giustizia aveva parzialmente annullato questa decisione, ritenendo che la Commissione Europea avrebbe dovuto comunque valutare modalità alternative per il recupero, anche solo parziale, dell’aiuto.
L’esenzione non è attribuita in base al profilo soggettivo dell’ente bensì in relazione alle attività svolte
Il recupero valeva comunque solo per gli anni precedenti al 2012, dato che, a decorrere dal 1° gennaio 2012, l’Ici è stata sostituita dall’imposta municipale unica (Imu) che, come riscontrato dalla Commissione Europea, è conforme alle norme dell’Ue in materia di aiuti di Stato, in quanto limita chiaramente l’esenzione agli immobili in cui enti non commerciali svolgono attività non economiche. Inoltre, la nuova normativa prevede una serie di requisiti che gli enti non commerciali devono soddisfare per escludere che le attività svolte siano di natura economica. E queste salvaguardie garantiscono che le esenzioni dal versamento dell’Imu concesse agli enti non commerciali non comportino aiuti di Stato. L’esenzione, in ogni caso, non è attribuita esclusivamente né essenzialmente in base al profilo soggettivo dell’ente (tale profilo non sarebbe infatti idoneo ad escludere una violazione delle norme sulla concorrenza), bensì in relazione alle attività da esso svolte e alle modalità con le quali le stesse sono svolte (che devono essere tali da porre la fattispecie al di fuori delle regole della concorrenza).
Uniformarsi alle regole comunitarie distinguendo le situazioni in cui non c’è commercialità
Tanto premesso, l’esecutivo comunitario evidenzia ora che «l’Italia potrebbe utilizzare i dati delle dichiarazioni presentate ai sensi della nuova imposta sugli immobili e integrarli con altri metodi, comprese le autodichiarazioni». Ovviamente quando ci sono delle regole comunitarie bisogna uniformarsi, dovendo comunque però distinguere (come in effetti chiede la stessa Commissione) le situazioni in cui non c’è commercialità, laddove la stessa Commissione chiarisce che «il recupero non è richiesto quando gli aiuti sono concessi per attività non economiche o quando costituiscono aiuti de minimis». Per fare una tale distinzione, un riferimento potrebbe essere dato dall’art.3 del Regolamento 200/2012, che stabilisce che tali attività sono svolte con modalità non commerciali quando l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente non commerciale prevedono:
- il divieto di distribuire, anche in modo indiretto, utili e avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’ente, in favore di amministratori, soci, partecipanti, lavoratori o collaboratori, a meno che la destinazione o la distribuzione non siano imposte per legge, ovvero siano effettuate a favore di enti che per legge, statuto o regolamento, fanno parte della medesima e unitaria struttura e svolgono la stessa attività ovvero altre attività istituzionali direttamente e specificamente previste dalla normativa vigente;
- l’obbligo di reinvestire gli eventuali utili e avanzi di gestione esclusivamente per lo sviluppo delle attività funzionali al perseguimento dello scopo istituzionale di solidarietà sociale;
- l’obbligo di devolvere il patrimonio dell’ente non commerciale in caso di suo scioglimento per qualunque causa, ad altro ente non commerciale che svolga un’analoga attività istituzionale, salvo diversa destinazione imposta dalla legge.
Esenzione Ici, la Commissione Europea offre lo spunto per un intervento normativo
Al di là di come si andrà a concludere la vicenda comunitaria per il pregresso, anche per il futuro un intervento normativo sarebbe comunque opportuno, magari specificando che le attività istituzionali possono considerarsi svolte con modalità non commerciali se:
- risultano prive di scopo di lucro;
- non si pongono in concorrenza con altri operatori aventi scopo lucrativo;
- costituiscano espressione dei principi di solidarietà e sussidiarietà.
La soluzione potrebbe dunque consistere nell’elaborare una norma di interpretazione autentica, che definisca esattamente cosa si intende per svolgimento di un’attività con modalità commerciali. Tali definizioni, oggi affidate al DM 200/2012 del Mef, dovrebbero essere stabilite con legge ordinaria, specificando, per esempio, che le attività si intendono comunque svolte con modalità non commerciali quando siano svolte secondo modalità non economiche, tali per cui eventuali contributi finanziari coprano solo una frazione del costo effettivo del servizio e non tali da potersi considerare una retribuzione del servizio prestato. Come anche affermato dalla Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n.15564 del 13/06/2018, peraltro, «gli enti associativi non godono di uno status di extrafiscalità, che li esenta, per definizione, da ogni prelievo fiscale, occorrendo sempre tenere conto della natura delle attività svolte in concreto».
Giovambattista Palumbo, Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulle Politiche Fiscali