Si avvicina il 25 aprile e come ogni anno si celebra la ricorrenza della liberazione del nostro Paese dal nazifascismo. Dovrebbe essere una celebrazione del ricordo e soprattutto della pacificazione degli animi dopo tanto odio. Ma a quanto pare anche quest’anno non sarà una celebrazione unitaria, della pacificazione, forse non lo sarà mai. La sinistra continua con la solita retorica resistenziale “la cosiddetta ‘vulgata’ che hanno sempre difeso e praticato.
E di conseguenza paventano di dover riconoscere la grande bugia spacciata per anni ai loro tifosi”. “il crollo della retorica resistenziale”, è un terrore che li spinge a ignorare quanto ormai si trova in numerosi libri di Storia. Per anni Giampaolo Pansa attraverso i suoi libri ha tentato di pacificare gli animi, e soprattutto di ricordare alcune verità, per esempio che non ci sono state solo barbarie da parte dei vinti, ma anche dei vincitori. Pertanto occorre raccontarla tutta la storia della resistenza.
I dirigenti partigiani comunisti che si erano addestrati alla guerriglia presso le università di Mosca sanno cosa fare, e Pansa lo racconta nei suoi libri, in pratica si decide “che bisogna uccidere subito il maggior numero di fascisti, soprattutto quelli di terza e quarta fila, i più indifesi. Senza preoccuparsi delle rappresaglie […] I capi comunisti, a cominciare da Longo e Secchia, sono rivoluzionari che conoscono sino in fondo l’importanza del cinismo. E pensano: più brutale sarà la reazione dei fascisti di fronte agli omicidi compiuti dai Gap, più la guerra civile si estenderà. E’ una previsione azzeccata, che farà scorrere fiumi di sangue”. Questa è una strategia di guerriglia terroristica attuata su larga scala tanto nelle grandi città che nei piccoli centri. Sostanzialmente i partigiani comunisti, “vogliono conquistare il potere con le armi e fare del nostro paese uno stato satellite dell’Unione sovietica”. Non occorre essere docenti di storia per sapere che questa è la verità. Eppure le tante sinistre italiane, tutte figlie o nipoti del vecchio Pci, ancora oggi continuano a negare l’evidenza.
Del resto i partigiani comunisti che erano una minoranza, tra i resistenti, avevano il traguardo di far diventare l’Italia un satellite dell’Urss, sopprimono non solo i fascisti, ma quando possono anche i partigiani non comunisti, antifascisti liberali, monarchici, possidenti, sacerdoti, politici moderati, socialisti riformisti. Pertanto se non c’è stato un bagno di sangue in Italia, lo dobbiamo grazie alla presenza delle truppe americane e inglesi, mentre nei Paesi “liberati” dai compagni sovietici o da quelli di Tito, le cose sono andate diversamente.
Sulle rappresaglie dei nazifascisti in seguito ad attentati dei partigiani ne abbiamo parlato ricordando l’eccidio delle Fosse Ardeatine, dopo l’attentato di via Rasella a Roma. Oggi voglio affrontare un’altra rappresaglia sconosciuta ai più mi riferisco a Piazzale Loreto del 9 e 10 agosto 1944 a Milano. Mi avvalgo delle ricerche di Vittorio Messori, ne parla nel suo “Emporio cattolico. Uno sguardo diverso su storia e attualità”. Vol. IV, (SugarcoEdizioni, 2006). Piazzale Loreto è conosciuta perché furono appesi per i piedi i cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci, i gerarchi fucilati a Dongo e, alla fine, anche Achille Starace che passava di lì per caso, essendo ormai da anni al di fuori della politica ed essendo finito, tra l’altro, nelle carceri della Repubblica Sociale. Questa macabra esibizione di cadaveri probabilmente è stata fatta dai partigiani in risposta ai diciassette milanesi fucilati dai nazisti il 9 e il 10 agosto 1944. Ogni anno c’è la commemorazione di questi fucilati, ma nessuno si sogna di spiegare perché c’è stato questo eccidio nazista.
Messori, il più grande scrittore cattolico vivente, prima di iniziare il racconto, premette di non aver nessuna simpatia per il nazifascismo, ma neanche per il comunismo. “Si tratta, infatti di fratelli, per quanto talvolta litigiosi, figli tutti e due della modernità postcristiana: in entrambi il “totalitarismo”, cioè la Politica, il Partito che pretendono di possedere la “totalità” dei cittadini, ridotti a sudditi”.
Messori riprende il diario di Vincenzo Costa, l’ultimo federale di Milano, cioè la più alta autorità fascista di quel periodo. Le sue memorie sono state giudicate veritiere e oggettive dal maggior esperto di queste cose, Renzo De Felice, ed egli stesso le ha fatte pubblicare da un’editrice insospettabile come Il Mulino, “In ogni caso, – scrive Messori – la ricostruzione che Costa fa della strage del 1944 è confermata da tutti gli storici: anche se, naturalmente, in pubblicazioni accademiche, da non far circolare troppo per non suscitare le reazioni, temibili, dei sacerdoti della fruttuosa retorica resistenziale”.
In buona sostanza, quello che è successo a Piazzale Loreto, “è l’equivalente milanese della romana via Rasella: la strage dei vecchi territoriali della Wehrmacht (non tedeschi, come spesso si dice, ma italiani dell’Alto Adige). Anche per Messori quella strage, “fu voluta dai comunisti come azione politica, non militare. Gli americani, in effetti, stavano avvicinandosi a Roma, i tedeschi si sarebbero presto ritirati ma nel popolo romano non c’era sufficiente odio per loro, i lutti non erano stati tanto gravi ed estesi da risvegliare nella gente un furente antifascismo che essi, i comunisti, avrebbero poi utilizzato a dovere, usando ai loro scopi i “martiri”. Infatti, lo scopo dell’attentato in via Rasella, era quello di “provocare l’inevitabile rappresaglia nazista e capitalizzare lo sdegno e l’orrore che ne sarebbero seguiti”. E’ lo stesso calcolo “egualmente cinico fatto dai capi partigiani milanesi”. A Milano in quel periodo, «Il Comando tedesco stava cercando con ogni mezzo di accattivarsi la simpatia della popolazione milanese. La brutalità, le deportazioni, gli arresti in massa seguiti all’8 settembre avevano suscitato paura e odio». Sembra che da Berlino si ripeteva l’ordine di non infierire “sulla popolazione ma di usare tatto e mostrare fraternità”. Ecco perché i tedeschi, “in terra ambrosiana presero alcune iniziative che, scrive il federale, «al popolo piacquero». Non piacquero affatto, invece, ai resistenti, i quali decisero di «rompere, con una bomba, il clima di comprensione, seminando morte e odio, riportando i tedeschi a comportarsi da brutali soldati».
Seguiamo il racconto di Costa: “Alle 7 di ogni mattina, sotto gli alberi di viale Lombardia angolo piazzale Loreto giungeva una decina di camion tedeschi, dai quali venivano calate ceste ricolme di verdure, patate, frutta che la Staffen-Propaganda acquistava al mercato all’ingrosso di Porta Vittoria e distribuiva gratuitamente ai cittadini. Il mattino del 9 agosto si snodava una lunga fila di massaie in attesa del loro turno. Un grosso maresciallo tedesco, grande come la statua di San Carlo ad Arona, dalla faccia di bonaccione bevitore di birra, sorridente con tutti, prendeva la merce e la calava nelle borse delle donne. Queste ringraziavano e se ne andavano veloci. Quegli scambi di sorrisi, quella reciproca fiducia e simpatia davano fastidio agli agenti dei Comitati di liberazione, che decisero di porvi fine con un eccidio”. Continua il racconto: “Nottetempo, in una cesta posero una bomba ad orologeria e quando al mattino il solito maresciallo, el Carlùn come lo chiamavano le massaie, era affaccendato a distribuire verdure, l’infernale ordigno esplose. I morti furono sette: cinque soldati tedeschi, compreso il grosso maresciallo, e due popolane milanesi. I feriti una trentina. L’attentato ruppe la tregua e fu l’inizio di una catena di lutti». Naturalmente ci fu subito la rappresaglia dei tedeschi, quello che desideravano i partigiani. Il 9 e il 10 agosto furono fucilati 17 milanesi. “Anche qui, – conclude Messori – dunque, come a Roma, nessuna giustificazione “militare”, solo motivazioni politiche che, tra l’altro, portarono alla morte anche di due donne del popolo con le loro povere borse e delle quali nessuno ha mai parlato. Così come non si parla dei civili romani, tra cui un bambino, uccisi dalla bomba di via Rasella”.
DOMENICO BONVEGNA
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