Non posso non prestare attenzione alle chiare e puntuali considerazioni del professore Eugenio Capozzi sul 25 aprile. Sono fondamentali e non si comprende il perché non viene mai invitato ai vari talk show per esempio dei programmi Mediaset.
Il 25 aprile in pratica è “prigioniero” della sinistra, anzi strumentalizzato, per “quasi ottant’anni se ne sono serviti per legittimare un partito, quello comunista, che era in realtà un corpo estraneo nelle democrazie liberali occidentali, sostenendo l’immaginaria identificazione tra antifascismo e democrazia, e parallelamente per delegittimare gli avversari di quel partito cercando di accusarli di non essere abbastanza antifascisti”. (Eugenio Capozzi, speculazione ideologica “Tre verità sul 25 aprile strumentalizzato dalla sinistra”, 25.4.23, lanuovabq.it)
Una pantomima grottesca che continua ad andare in scena ancora oggi, quando quel partito da decenni non esiste più e teoricamente tutte le forze politiche italiane dovrebbero concordare su una concezione del pluralismo che escluda ogni dittatura. Salto i passaggi dove il professore esamina la questione dei partiti del centrodestra che in continuazione sono chiamati a “giurare” di NON essere fasssisti. Prima Berlusconi, ora la Meloni. In pratica la destra irrimediabilmente “sporcata”, sembrerebbe condannata in saecula saeculorum ad essere condannata ad una sorta di “fascismo eterno”, che verrà ancora sommariamente adoperato quale corpo politicamente contundente, nella speranza di dividere e/o isolare gli avversari, e simmetricamente di cementare lo “zoccolo duro” del consenso di uno schieramento progressista sempre più sfilacciato, contraddittorio al proprio interno e privo di un’identità comune.
Pertanto secondo il professore affinché l’inganno non dilaghi ulteriormente, occorre ribadire almeno tre verità storiche. La prima verità, costantemente ignorata dalle celebrazioni unilaterali e strumentali, “è che nella liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca e dalla Repubblica di Salò mussoliniana il ruolo determinante non venne svolto dalla Resistenza italiana, ma dalle truppe angloamericane sbarcate a partire dall’estate del 1943”. Il contributo dei partigiani, in un anno e mezzo di guerra sul territorio del Centro-Nord, fu sotto alcuni aspetti significativo, ma troppo enfatizzato “dall’intera classe politica italiana da allora in poi per veicolare l’idea di un paese che si era liberato con le proprie forze e riscattato dalla dittatura, ma rimase sempre secondario rispetto all’asse centrale della guerra”.
La seconda verità – eterno “segreto di Pulcinella” per tanti che rifiutano ancora di vederla – “è che la Resistenza italiana non fu un fenomeno unitario, ma un’aggregazione tra varie componenti provvisoriamente unite dal nemico comune, rimaste però sempre divise sotto molti aspetti essenziali”.
Esisteva una differenza sostanziale di approccio tra le formazioni partigiane che facevano più direttamente capo a strutture partitiche e aderivano a piattaforme ideologiche (comuniste, socialiste e in parte azioniste) e quelle che si formarono per un movente esclusivamente patriottico, etico, religioso (la Resistenza militare, quella cattolica, quella monarchica e liberale). Lo abbiamo visto affrontando il tema degli attentati terroristici dei partigiani comunisti, per esempio a via Rasella a Roma o a Milano in viale Abruzzi.
Importante cosa intendevano per guerra partigiana i comunisti. Era il “primo atto di una rivoluzione politica, e gran parte dei suoi aderenti guardava come modello di società alla dittatura comunista sovietica”. Peraltro, scrive Capozzi, “Il confronto tra i due poli della Resistenza, al di là dell’inevitabile coordinamento funzionale allo sforzo bellico, fu netto e irriducibile, e sfociò in episodi tragici, come quello dell’eccidio di Porzûs nel febbraio 1945”.
Infatti sottolinea anche Capozzi che fu, “soltanto grazie alla presenza sul territorio e all’indiscussa preponderanza dell’armata angloamericana – e poi grazie al rifiuto della maggioranza della società civile italiana di adeguarsi a quel modello, espressa nelle elezioni del 1946 e del 1948 – che i partigiani socialcomunisti non riuscirono a realizzare il loro obiettivo, che non era certo la democrazia nel senso liberale e occidentale del termine”.
Mentre per quanto riguarda la terza verità deriva direttamente dalle prime due. “La democrazia pluralista rinata in Italia a partire dal 1944, e sancita poi dalla Costituzione repubblicana del 1948, pur essendo inevitabilmente condizionata nella sua genesi e nella sua vita dalla presenza della più forte sinistra comunista nel mondo occidentale, grazie agli angloamericani e alla Resistenza militare, patriottica, cattolica, monarchica, liberale poté prendere forma nel solco del costituzionalismo liberaldemocratico”. Pertanto, “L’antifascismo, dunque, pur essendone necessariamente alla base in quanto il regime mussoliniano era stato la negazione della democrazia liberale, non ne esaurisce assolutamente i fondamenti ideali, che, più ampiamente, sono quelli giusnaturalistici, in cui convergevano la cultura liberale, quella del personalismo cristiano e quella del socialismo riformista”.
Tra l’altro, scrive Capozzi, “non a caso la Carta repubblicana non nomina mai l’antifascismo come base dell’ordinamento italiano – con buona pace degli scalmanati polemisti che vorrebbero identificarlo in essa come assioma supremo – se non nella Disposizione transitoria che vieta la ricostituzione del partito che aveva instaurato il precedente regime, mentre pone chiaramente come suoi principi fondamentali la sovranità popolare, temperata dalla limitazione e divisione del potere, i “diritti inviolabili dell’uomo”, l’uguaglianza davanti alla legge e le libertà civili sedimentate in secoli di tradizione costituzionale”. Al di là della mistificazione della sinistra di ieri e di oggi, insomma, il senso politico del 25 aprile non può essere altro che quello del rifiuto di ogni regime autoritario e totalitario, senza indebite assolutizzazioni dell’uno o dell’altro, e dunque la fondazione della libertà sulla resistenza sia al fascismo e al nazismo che alle minacce illiberali del comunismo.
a cura di DOMENICO BONVEGNA