di Davide Romano
“Il cristiano non può essere mafioso”. Con queste parole, pronunciate quale anno fa da papa Francesco a Palermo, nel contesto del ricordo di Padre Puglisi, la Chiesa cattolica romana ha segnato una nuova consapevolezza nella sua lotta contro la mafia. Questa affermazione, semplice ed immediata nella sua ovvietà, è stata accolta da molte parti come un segno di cambiamento all’interno della Chiesa di fronte al fenomeno mafioso. Questo cambiamento è il risultato di un percorso discontinuo e complesso, iniziato in territori periferici e con esperienze pastorali di minoranza all’interno della cristianità.
Già nel lontano 1963, dopo la strage mafiosa di Ciaculli, il pastore valdese Pietro Valdo Panascia lanciò un appello “a quanti hanno la responsabilità civile e religiosa del nostro popolo” per “la formazione di una più elevata coscienza morale cristiana”. In quel momento, la Chiesa cattolica reagì in modo più lento attraverso la lettera pastorale dell’Arcivescovo di Palermo, il cardinale Ernesto Ruffini, intitolata “Il vero volto della Sicilia”. Questa risposta fu giudicata da molti insoddisfacente e fu ritardata dalla divergenza di vedute tra il Papa Paolo VI e lo stesso Ruffini, che respingeva l’idea che la mentalità mafiosa potesse avere alcuna connessione con quella religiosa.
Per assistere a una nuova presa di posizione della Chiesa cattolica siciliana contro la mafia, dobbiamo aspettare il periodo dei grandi delitti eclatanti, che ebbe luogo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta del secolo scorso. Il cardinale Salvatore Pappalardo, con le sue celebri omelie, rappresentò la disponibilità della Chiesa siciliana postconciliare a collaborare con lo Stato per promuovere una coscienza comune, sia civica che legale, basata sulla legalità. Questa fase fu descritta da alcuni come “la rivoluzione degli onesti”, un tentativo di opporre la “propria giustizia personale” all’ingiustizia perpetrata da molti.
Tuttavia, questa stagione di impegno ebbe una durata relativamente breve. Quando divenne evidente che la lotta della Chiesa contro la mafia richiedeva una riformulazione politica del sostegno dell’episcopato nazionale al partito cattolico unico e la rimozione delle connivenze tra mafia e poteri dello Stato, spesso protette da figure nominalmente cattoliche, si tornò a una difesa apologetica basata sull’identità culturale cristiana astratta del popolo siciliano, ignorando le radici del problema mafioso.
L’assassinio di Padre Puglisi, il 15 settembre del 1993, avvenne in un periodo in cui il tema della lotta alla mafia era in gran parte assopito nel dibattito interno della Chiesa. La morte del prete che aveva promosso pratiche pastorali innovative e una visione rinnovata dell’evangelizzazione popolare del territorio rappresentò un momento significativo. Tuttavia, questo avvenimento fu preceduto dal famoso “grido” contro la mafia di Papa Giovanni Paolo II, che, utilizzando un linguaggio apocalittico, spostò la sfida dalla sfera dell’analisi socio-politica e culturale a quella espressamente escatologica.
Oggi è evidente che il fenomeno mafioso, considerato come un’espressione di un’antropologia distorta, ha anche rilevanza morale e teologica. Tuttavia, è difficile non notare che questa nuova consapevolezza collettiva arriva più di cinquant’anni dopo, alla fine di un percorso non lineare di auto-riflessione della comunità ecclesiale di fronte all’ostinata contraddizione tra la mafia e il Vangelo.
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