E’ di questi giorni la notizia di due ragazze olandesi Jolanda Fun e Zoraya ter Beek che hanno deciso di lasciarsi morire prossimamente, dopo averlo programmato, perché sono depresse e tristi. Jolanda Fun ha deciso di morire la prossima settimana, il giorno del suo 34° compleanno ed è stata in grado di preparare gli inviti al funerale in anticipo. In una intervista la Fun, ha spiegato perché vuole morire, anche se è fisicamente sana, si sente costantemente «triste, giù, depressa», pertanto, l’unica opzione che le rimane è quella di «uscire dalla vita».
Zoraya ter Beek è una donna di 28 anni, anche lei con disturbi mentali ma fisicamente sanissima, soffre di depressione e autismo, teme di «non migliorare mai» e ha programmato di morire con un’iniezione letale a maggio. Anche lei in una intervista, ha detto di aver deciso per l’eutanasia dopo che uno psichiatra che la curava, le aveva comunicato che non c’era altro che si potesse fare. Per evitare l’incombenza della cura della tomba da parte di partner e famigliari, Zoraya vuole esser cremata e riposta in una anfora portatile, come un soprammobile qualunque. Con questa premessa presento un libretto sul tema del fine vita, curato dal network associativo “Ditelo sui Tetti” e il “Centro Studi Rosario Livatino”, pubblicato dalle edizioni Cantagalli e dal settimanale “Tempi”. Il titolo del breve testo: “L’Eutanasia non è la soluzione. 50 domande e risposte sul fine vita, per avere sempre cura della vita”.
Quando si parla di dignità nel morire, attenzione a quel “nel”. Trattare questo tema non è facile: la dignità dell’uomo e la sua morte. Tuttavia, l’agile opuscolo di soli 54 pagine prova a dare delle risposte a domande semplici e banali. Il fine vita ha a che fare con il diritto che però ha un limite, quello più importante, il “bene” per eccellenza, la dignità dell’uomo. La sua salvaguardia deve necessariamente essere rigida, non può dipendere dalle situazioni. Anzi si fa oggi più urgente perché l’umano è annebbiato quasi nascosto, pertanto è reso più debole. Si pensi all’aborto dove non si tiene conto del bambino, ma solo dell’autodeterminazione della donna. Il diritto deve intervenire quando l’uomo è in stato di debolezza, in questo momento che deve farsi sentire, tutelando il più debole. Oggi, è venuta meno quella “cintura protettiva” nei confronti dei deboli per condizioni di salute, fisica o psichica. Per questo motivo si cerca di strumentalizzare casi pietosi se ne fa il cavallo di Troia per cambiare il fondamento della dignità, che non coincide più con la natura stessa dell’uomo, bensì con la sua capacità di autodeterminarsi. Così l’uomo non accetta più limiti, pretende tutto e diventa lui misura di tutto. La dignità umana diventa materia oggettivamente manipolabile, non più indisponibile. Intanto, il diritto non è più un limite, ma strumento per la soluzione fra chi può essere ritenuto degno e chi no. E’ il giudice che diventa il supremo arbitro. Mentre il medico in questo momento è chiamato a un compito enorme. Il medico e il giurista si ritrovano ad essere necessariamente alleati, impegnati nella battaglia per la vera dignità di ogni persona.
I sostenitori dell’indisponibilità del bene-vita vengono denunciati di essere insensibili al dolore, di essere quasi dei masochisti (verso se stessi) e dei sadici (verso gli altri).
A questa accusa rispondono Domenico Airoma e Domenico Menorello che hanno approntato l’introduzione, qui non si tratta di ricercare o glorificare il dolore, quasi da maniaci della sofferenza e neppure essere algofobici, cioè essere terrorizzati dal dolore. Si tratta di prendere atto che il dolore e la sofferenza fanno parte della nostra vita e sono spesso delle luci di emergenza, che ci ricordano la nostra condizione di finitezza. Il suicidio assistito viene presentato dall’associazione “Luca Coscioni” in tutte le regioni italiane. L’iniziativa viene motivata coi tipici slogan dei promotori della legalizzazione dell’Eutanasia: “liberi sino alla fine”, “liberi subito”. Vogliono l’avvallo dello Stato, delle Istituzioni, così si introduce un vero e proprio “diritto”, cui segue necessariamente un “dovere”, quello delle strutture sanitarie di somministrare la morte su richiesta. E’ la “proposta Cappato” che prevede all’art. 4, comma 2 aiuto a morire che viene definito un “diritto individuale e inviolabile”. Peraltro la proposta Cappato prevede che entro 20 giorni, il Servizio Sanitario sia pronto a sostenere il suicidio. La “Legge” poi fa costume si diceva anche per il divorzio e l’aborto. Ecco perché non va sottovalutata. Certo il suicidio è stato da sempre un gesto personale, quindi un esercizio del libero arbirtio, il “poter fare quello che si vuole”. Ciò che propone la “Legge Cappato” è qualcosa di molto diverso: “si vuole che la morte sia avallata, “deliberata e comminata dallo Stato”. Del resto la parola “Legale” significa un bene per tutti, qualcosa di “buono”, di “positivo”. L’effetto della legge, non è solo che “lascia fare”, ma che questa possibilità è buona, è un “bene”. L’esempio macroscopico è la Legge 194/78 che autorizza l’interruzione della gravidanza. Se leggiamo il testo, gli scopi sono piuttosto la “tutela della maternità” e la “salute della donna”, eppure alla fine l’aborto è diventato un diritto, come sbraitano in questi giorni i sinistri che vedono minacciata la legge perché il Governo Meloni vuole introdurre negli ospedali le associazioni Pro-Vita.
Gli autori del libretto insistono sul fattore che la Legge fa costume, condiziona l’intera comunità civile. Se non percepiamo questo, non capiamo la posta in gioco che è antropologica. Cioè è in gioco la concezione stessa dell’uomo. Per decenni il Partito Radicale ha tenuto la stessa strategia, condurre battaglie per introdurre presunti “diritti”, esattamente con l’arma della pretesa legalizzazione ora di un aspetto ora di un altro. Tuttavia, gli autori dell’opuscolo pongono l’attenzione sul concetto del cambio d’epoca che interagisce con le leggi. Dal 2015 c’è stato un’impressionante incalzare di leggi che mettono per esempio in discussione la natura e il legame matrimoniale, il superamento dell’unicità del modello familiare, la negazione dell’oggettività di genere, la indisponibilità del fine vita. Il libretto edito da Cantagalli e Tempi sottolinea la caduta di tutte le certezze valoriali, l’affermarsi di un nuovo modello antropologico assai diverso. Sostanzialmente ormai si è affermato un modello iperindividualista, dove la persona viene riconosciuta solo se ha successo. Il messaggio che porta l’eutanasia e il suicidio medicalmente assistito è inequivocabile per il malato o a una persona fragile: “tu non puoi più autodeterminarti e quindi la tua vita non vale più”. A questo punto è importante definire che cosa sia la dignità per noi rispetto a chi propone la cultura di morte. Posso disporre liberamente del mio corpo? Se viene considerato una cosa si, se è un dono no. La Chiesa cattolica non acconsente alla pratica dell’eutanasia/suicido assistito e quindi anche l’operatore sanitario cattolico. Nello stesso tempo rifiuta l’accanimento terapeutico. Per quanto riguarda papa Francesco non ha manifestato nessuna apertura nei confronti dell’eutanasia. Inoltre il testo si occupa delle cure palliative e anche di questo aspetto si occupa papa Francesco nell’enciclica “Laudato si” per i bisognosi di cure, dei deboli e propone l’esempio del Buon Samaritano. Occorre convertire lo sguardo del cuore e avere compassione verso i deboli. “Attorno al malato occorre creare una vera e propria piattaforma umana di relazioni […]”. Le cure palliative servono a non distogliere lo sguardo dalla vita fragile. E’ una cultura alternativa a quella dello “scarto”. Al testo hanno contribuito Domenico Airoma, Rodolfo Casadei, Maurizio Gallo, Domenico Menorello, Marco Paglialunga, Marcello Ricciuti, Maurizio Sacconi.
DOMENICO BONVEGNA
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