La Cartina della Felicità: L’uomo nell’opulenza non perdura, è come le bestie che ammutoliscono

Carissimi, anche dopo questa tornata elettorale le reazioni degli interessati divergono in base ai risultati ottenuti: per gli eletti (e i relativi sostenitori) si tratta di gustare pienamente la vittoria, vivendo un particolare momento di prosperità; di contro, per coloro risultati “perdenti” – candidati e supporter- si profila un periodo di “depressione” e “redde rationem” (rendiconto) beffardo e sarcastico in ogni sfaccettatura.

A mio modesto avviso, se queste opposte reazioni possono far parte degli alti e bassi dell’esistenza umana, è più vero che entrambe mancano del substrato “sapienziale” che colora tutta la vita dei cristiani. In estrema sintesi, sono lontane dalle indicazioni salutari che la Parola di Dio offre a tutti.

Ed è su questa linea che intendo proporre una riflessione e tessere le fila sulle parole del Salmo 49,13, seguendo la versione più letterale:

“L’uomo nell’opulenza non perdura, è come le bestie che ammutoliscono”.

Dal sapore prettamente sapienziale l’espressione del salmista insegna agli uomini, attorniati dai “perversi” (v. 6) e provocati “dagli sfarzi dei ricchi” (v. 17), ad avere fiducia piena nel Signore, essendo transitoria la fortuna degli empi.

Infatti, l’uomo ricco “quando muore, non porta nulla con sé” (v. 18).

Il tutto trova eco nel Libro di Qoelet (3,19), che con il suo lucido disincanto afferma:

“La sorte degli uomini e delle bestie è la stessa:

come muoiono queste, così muoiono quelli;

 c’è un solo soffio vitale per tutti”.

La Letteratura Latina ci ha tramandato un frammento/massima del poeta Orazio, quasi una risonanza “laica” di questa citazione: “Pallida mors aequo pulsat pede pauperum tabernas regumque turres (La pallida morte bussa con lo stesso piede ai tuguri dei poveri e alle torri dei re). La caducità della vita non risparmia alcuno: tutti uguali davanti alla morte, all’esito ultimo dell’esistere terreno; tuttavia ognuno di noi passa nel mondo come una moneta d’oro che porta in sé l’iscrizione e l’immagine divina. E, secondo la lezione di Ermes Ronchi, a me Gesù dice: tu non iscrivere nel cuore altre appartenenze che non siano a Dio. Resta libero!

Il versetto del salmo sopra riportato, che funge da ritornello, ingloba i ricchi sicuri di sé, i sapienti e gli stolti, e si amplia a tutta l’umanità. Ne consegue che animali e uomini “ammutoliscono” definitivamente con la morte.  Il loro silenzio, paradossalmente, diventa assordante per le orecchie di coloro che restano ed esprimono sapienza.

Il Nuovo Testamento ha riletto con molti brani le indicazioni di questo salmo e non ha lesinato dure prese di posizione verso coloro che fanno di Mammona il proprio idolo e scelgono di vivere nell’effimero, dando fiducia a persone e cose che non possono portare a salvezza e redenzione.

San Paolo dice che i cristiani sono coloro che fanno la verità nell’amore (Ef 4,15), coloro che non separano mai verità e amore per non farli morire entrambi perché le due entità non possono esistere separate.  La verità senza amore porta a tutti i conflitti presenti nel mondo; d’altro canto, l’amore senza verità è sterile perché è amore fortuito, occasionale, senza futuro.

Tra me e mio fratello vige una nuova economia: guadagno e debito d’amore. San Paolo scrive ai cristiani di Roma (13,8): Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole. Tutto sulla terra si paga col denaro; solo il senso della vita si paga con l’amore. È dalla consapevolezza di un debito che non potrò mai pagare che nasce l’atteggiamento della gratitudine e della fiducia, beni per l’eternità.

Fra gli evangelisti, quello che presenta le riflessioni più acute sui danni provocati dalla ricchezza è san Luca, il quale riportando nel suo scritto la parabola (Lc 12, 16-19) dell’uomo talmente ricco da pensare alla costruzione di altri depositi dove ammassare i suoi beni per il futuro, si sofferma acutamente su costui che si sente interpellato da Dio con un sostantivo graffiante: “Stolto!” ed è invitato a riflettere: “quel che hai preparato, di chi sarà?”.

Caustico e vero il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio” (Lc 12, 21).

Un altro colpo diritto al cuore di chi costruisce la propria esistenza sui beni lo assesta la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31). Mi sembrano alquanto eloquenti le parole di Abramo verso il ricco:

“Figlio, ricordati che nella vita tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali…”.

È questo un modo immediato e diretto per interpretare e commentare il nostro tempo, durante il quale il solco che divide ricchi e poveri si fa sempre più largo e profondo, perché manca all’uomo contemporaneo non solo la capacità, ma anche la lucidità del discernimento che ruota attorno al fatto che la vita umana vale moltissimo, più di tutte le ricchezze:

“Che serve ad un uomo guadagnare tutto il mondo se perde la vita?” (Mt 16,26).

Il punto discriminante del nostro agire sta proprio qui: quale valore diamo alle cose e alla nostra vita? Il giudizio del Vangelo circa l’uso smodato dei beni che soffoca lo sviluppo armonico della nostra esistenza è molto chiaro e netto: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni sorte di cupidigia, perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni” (Lc 12,15).

Quanta sapienza e veridicità nelle parole di Gesù!

Mettiamoci sulla strada su cui Dio agisce, adottiamo il suo stile: per vincere la notte accende il mattino, per far fiorire la steppa sterile semina infiniti semi di vita, per far sollevare la pasta immobile immette un pizzico di lievito. Questa – per usare le parole di Ermes Ronchi – è l’attività solare, positiva, vitale che dobbiamo avere verso noi stessi, liberandoci dai falsi esami di coscienza negativi, tutti tesi ad analizzare e a quantificare il male. La nostra coscienza chiara, illuminata, sincera deve prima di tutto scoprire ciò che di buono, bello, positivo, promettente Dio ha seminato in noi e coltivarlo, custodirlo, nutrirlo. E lodare, ringraziare e far sì che porti frutto.

Da che cosa dipende la nostra vita?

Per dare una risposta da cristiani non possiamo non tenere conto delle indicazioni chiare che la Parola ci presenta circa l’avidità, la bramosia, l’ingordigia legate al denaro e ai beni: tutto questo non costituisce un’assicurazione per la vita.

Imparate da me, che sono mite e umile di cuore (Mt 11,29): Cristo si impara imparandone il cuore, cioè il modo di amare. Il Maestro è il cuore. La pace si impara, la pienezza della vita si impara, a vivere si impara, imparando il cuore di Dio. E la scuola è la vita di Gesù, libero come il vento, leggero come la luce, alto e dignitoso, che nulla e nessuno ha potuto comprare o piegare.

Ristoro dell’esistenza è questo amore mite e umile, serenità nell’arsura del vivere.

 

Carissimi, ricordiamo l’esempio di Gesù, di cui papa Francesco si è fatto interprete: “Il sudario non ha tasche”.

Auguri per un sereno periodo di riposo.

 

Ettore Sentimentale

parrocchiamadonnadelcarmelo.it