UNA GUIDA PER CONOSCERE GLI STATI UNITI D’AMERICA

A quasi un mese di distanza delle elezioni presidenziali americane un ottimo strumento da leggere potrebbe essere la “Guida politicamente scorretta alla storia degli Stati Uniti d’America” del professore americano Thomas E. Woods Jr. Un testo fortemente voluto dalla Casa Editrice D’Ettoris di Crotone (2009; pp 346, e.24,90). La Guida fa parte della collana “Magna Europa. Panorama e voci”, voluta dal compianto Giovanni Cantoni. Sembra paradossale ma gli Stati Uniti d’America, nonostante esercitano nel mondo Occidentale un’influenza innegabile in diversi ambiti, “il Paese resta sconosciuto”. Sostanzialmente non se ne conoscono, come e quanto, sarebbe opportuno e utile, la storia, le origini, l’identità profonda, la cultura politica autentica, il sistema istituzionale, i meccanismi elettorale e tanto altro. Lo storico e saggista statunitense Thomas E. Woods Jr., ha pubblicato una guida inedita, curata per il lettore italiano da Maurizio Brunetti, di un Paese centrale per la storia dell’Occidente degli ultimi due secoli: gli Stati Uniti d’America.

Woods, è un esponente di rilievo di quella galassia conservatrice che si richiama a intellettuali, figure-chiave del conservatorismo americano del secolo appena trascorso, quali Russell Amos Kirk (1918-1994), Richard Malcom Weaver (1910-1963) e Robert Alexander Nisbet (1913-1996), è noto in Italia per aver pubblicato un testo divulgativo, intelligentemente apologetico, dal titoloCome la Chiesa Cattolica ha costruito la civiltà occidentale” (Cantagalli, Siena 2007), e un impegnativo saggio di dottrina sociale — di quelli per cui la fede diventa seriamente la cifra, e al tempo stesso la soluzione, della complessità del reale —, La Chiesa e il mercato” (Liberilibri, Macerata 2008).

L’opera è aperta da un invito alla lettura di Marco Respinti, La “scoperta dell’America”, che accenna a non pochi luoghi comuni che ancora oggi caratterizzano la conoscenza media dell’universo statunitense agli occhi dell’uomo della strada. Questi, sempre più assediato dall’egemonia imperante del “politicamente corretto”, pertanto, non è più in grado di compiere la necessaria operazione di discernimento delle idee che il circuito mass-mediatico gli propone senza soluzione di continuità. Così, Respinti ci invita a tornare con decisione alla realtà delle cose. “Distratti e confusi da questo falso mito della ‘neutralità’, accade così che degli Stati Uniti d’America pensiamo di sapere cose che in realtà non si sanno, anzi che spesso nemmeno esistono […]”. L’ignoranza di cosa sia l’”America”, non è il prodotto del caso, scrive Respinti,“è piuttosto l’esito voluto dall’opera di propaganda ideologica – liberal-progressista, socialcomunista, relativista – che come strumento primo ha la falsificazione dei dati di fatto mirante a ‘normalizzare’ l’idea che fra menzogna e verità non vi sarebbe differenza alcuna”.

Peraltro secondo Respinti, persino l’”antiamericanismo” non esisterebbe affatto se non come riflesso dell’”americanizzazione ignorante”.Comunque sia, il danno è enorme, anche perché ancora gli Usa, sono il Paese più importante, potente e ricco del mondo, del “nostro” mondo, cioè dell’Europa, dell’Occidente. Come hanno scritto gli storici delle civiltà, è la “Magna Europa”. Ecco perché è importante riscoprirlo.

La Guida di Woods, viene definita da Respinti come un Abc “elementare”, una definizione per nulla “negativa”, anzi, può essere accostata a un altro testo fondamentale per il conservatorismo. Mi riferisco a I Falsi miti della Rivoluzione Francese di Jean Dumont.

Segue una Nota del curatore, Maurizio Brunetti che presenta una corposa Bibliografia, che dà l’idea del vasto, quanto variegato, orizzonte culturale e ideale a cui le riflessioni dell’autore si ricollegano. L’opera vera e propria inizia la Prefazione dell’Autore del libro, che offre quale significativo incipit una citazione fulminante dell’attore e comico statunitense Will Rogers (1879-1935), secondo cui […] in America il problema non è tanto che la gente non sa; quanto piuttosto che la gente pensa di sapere precisamente quello che non sa”. Infatti, per Woods, la storia americana è stata studiata dagli studenti, quantomeno negli ultimi decenni, come una serie di cliché tristemente scontati: tipo, la Guerra Civile fu solo una questione di schiavitù. L’opera di Woods si compone di diciotto capitoli

Il capitolo I, Le origini coloniali della libertà americana, ripercorre le tappe della presenza dei coloni britannici Oltreoceano, premurandosi di sottolineare il forte anelito di libertà che li aveva spinti a fuggire dalla madrepatria e la loro marcata e orgogliosa identità religiosa. Saranno in effetti soprattutto questi due “caratteri” a dar vita al cosiddetto “spirito americano”, che si affermerà successivamente. “Per i coloni la religione era fondamentale” e le questioni spirituali erano vivacemente dibattute. La convinzione di fondo, in ogni caso, la stessa che poi li aveva spinti ad emigrare, era che nessun governo centrale avrebbe potuto intromettersi — per alcun motivo — nell’esercizio del diritto alla libertà religiosa. Per questo i coloni, tendenzialmente erano diffidenti di fronte a ogni idea, progetto o proposta di Stato centralizzato.

Il dato emerge con chiarezza nel capitolo II, La rivoluzione conservatrice americana, dedicato proprio agli eventi che hanno portato i coloni a separarsi dalla madrepatria. Contrariamente a quanto ancora si ritiene, quella degli americani (1775-1783) non è stata una rivoluzione ma una reazione, con l’obiettivo di conservare, e non di cancellare, la propria storia civile. Per dirlo con le parole di Woods: “Gli americani che protestarono contro l’usurpazione inglese delle libertà coloniali volevano preservare i loro diritti tradizionali, non erano rivoluzionari in cerca di una riorganizzazione radicale della società”. I loro riferimenti naturali, e ideali, sono da ricercare più nel Medioevo — come la Magna Charta del 1215 — e all’alba dell’età moderna — come il Bill of Rights, la “Carta dei diritti”, risalente al 1689 —, che nell’illuminismo francese della seconda metà del secolo XVIII, a cui pure per diverso tempo sono stati legati da una storiografia ideologizzata con l’obiettivo — neanche troppo nascosto — di stravolgere decisamente l’identità stessa della nazione. Insomma, “gli americani difesero i loro tradizionali diritti [mentre] i rivoluzionari francesi disprezzavano le tradizioni della Francia e cercarono di rifare ogni cosa daccapo: nuove strutture di governo, nuovi confini provinciali, una nuova “religione”, un nuovo calendario”. Quello che accadde dall’altra parte dell’Oceano fu allora […]una guerra americana per l’indipendenza in cui gli americani si sbarazzarono del potere britannico al fine di conservare le proprie libertà e autonomia di governo”.

Nel capitolo III, La Costituzione, Woods illustra sinteticamente le fondamenta dottrinali del federalismo americano, a partire dall’approvazione del Primo Emendamento, varato, non a caso, in tema di libertà religiosa per garantire le prerogative del cittadino dalle eventuali usurpazioni dello Stato centrale. Il capitolo IV, Il governo americano e i “princìpi del ‘98”, esaminando la versione americana della teoria politica dei checks and balance, evidenzia ulteriormente le ragioni storiche che avevano contribuito allo sviluppo di una radicata cultura civica delle autonomie locali. Occorre avere presente, quando si considerano i primi anni dell’indipendenza, è che “poiché gli Stati erano parti costituenti dell’Unione e avevano goduto di un’esistenza indipendente molto prima che la Costituzione fosse decretata, i primi uomini di Stato americani vollero munire gli Stati di qualche protezione nei confronti del governo federale. A quest’ultimo non fu concesso di avere l’autorità esclusiva d’interpretare la Costituzione […]”.

Il V° capitolo si occupa della divisione fra il Nord e il Sud e poi il VI° la conseguente Guerra Civile (1861-1865), La Guerra fra gli Stati. Anche qui, c’è una vulgata di parte, diffusa nei decenni passati versioni a dir poco manichee del conflitto, facendo apparire la guerra combattuta soltanto per l’abolizione della schiavitù. L’esercizio del predominio politico ed economico di un gruppo di Stati sull’altro svolge un ruolo di pari importanza. D’altra parte, non è certo per altruismo che il Nord voleva impedire l’introduzione della schiavitù nei nuovi territori: l’obiettivo era di riservare quelle terre ai soli bianchi. Gruppi e movimenti abolizionisti, peraltro, esistevano ed erano diffusi anche al Sud: anzi, per essere precisi, “nel 1827, operava negli Stati meridionali un numero di associazioni contro la schiavitù maggiore più di quattro volte rispetto a quelle del Nord”.

La guerra civile lascia ferite profonde e difficili a rimarginarsi del tutto ancora oggi. Va comunque ribadito che la questione della schiavitù non era stata il reale casus belli. Prima ancora che entrasse in carica il primo presidente repubblicano, Abraham Lincoln (1809-1865), sette Stati del Sud avevano lasciato l’Unione. D’altronde, il diritto all’autogoverno, secondo le parole dei Padri Fondatori, avrebbe dovuto essere difeso fino allo stremo, anche a costo di uscire dall’Unione, come di fatto avviene all’inizio degli anni 1860 di fronte a un governo centrale divenuto oppressivo.

La guerra scoppia nell’aprile del 1861, quando i sudisti rispondono aprendo il fuoco contro una nave inviata da Lincoln per riapprovvigionare un forte federale nella Carolina del Sud.  Lincoln dichiara lo stato di ribellione e richiama 75.000 uomini della Guardia Nazionale. Per tutta risposta dichiarano la secessione anche gli altri Stati del Sud ancora nell’Unione: Tennessee, Virginia, Carolina del Sud e Arkansas. Per aggiungere un ulteriore spunto significativo di riflessione, Woods ricorda la lista delle persone autorevoli d’accordo con il diritto alla secessione, una lista definita “impressionante”. Vi si leggono, fra gli altri, i nomi di Thomas Jefferson (1743-1826), principale estensore della Dichiarazione d’Indipendenza e terzo presidente degli Stati Uniti d’America, John Quincy Adams (1767-1848), sesto presidente, William Lloyd Garrison (1805-1879), il celebre abolizionista, William Rawle (1759-1836) e Alexis de Tocqueville (1805-1859). Correttamente parlando, quindi, la guerra non fu combattuta fra gli Stati del Nord e quelli del Sud ma fra gli undici resisi indipendenti e il governo federale. Per questo, “nessuno che abbia studiato l’argomento contesterebbe che, almeno per i primi diciotto mesi della guerra, l’abolizione della schiavitù non era la questione”. A questo punto il testo di Woods si sofferma abbastanza sulla figura di Abramo Lincoln, peraltro oggetto di nuove pellicole celebrative, va decisamente ridefinita rispetto al mito abolizionistico che la caratterizza. Lincoln, “era un uomo del suo tempo” nota Woods, credeva infatti nella superiorità dei bianchi ed era a favore della deportazione degli schiavi liberati. Naturalmente vi lascio alla lettura della Guida, oppure all’ottima e completa recensione di Omar Ebrahime, uscita sulla rivista Cristianità (n.369, anno 2013), in alleanzacattolica.org.

Sempre per quanto riguarda Lincoln fa notare Woods che nella sua carriera politica,

non è difficile trovare conferme delle sue opinioni razziali, così ad esempio in un dibattito del 1858: Non sono — né mai sono stato — in alcun modo a favore dell’uguaglianza sociale e politica tra la razza bianca e quella nera; e non sono — né mai sono stato — favorevole a dare ai neri la possibilità di votare o di fare i giurati, né a permettere loro di ricoprire cariche pubbliche, né d’imparentarsi con persone bianche; e dirò in aggiunta che c’è una differenza biologica tra la razza bianca e quella nera che, credo, impedirà sempre alle due razze di vivere insieme sulla base di un’uguaglianza politica e sociale. E, se non possono vivere così, fintanto che rimangono insieme, dovranno sussistere una posizione di superiorità e una d’inferiorità, ed io sono, come chiunque altro, favorevole ad assegnare la posizione di superiorità alla razza bianca”. Lincoln, come presidente, favorì un emendamento costituzionale che autorizzava l’acquisto e la deportazione degli schiavi e sollecitò il Dipartimento di Stato a individuare possibili aree per un insediamento; fra i luoghi presi in esame, c’erano Haiti, l’Honduras, la Liberia — dove la colonia degli USA per i liberti esiste tuttora —, l’Ecuador e l’Amazzonia”. Tuttavia occorre precisare che dietro la guerra contro il Sud, vi erano motivazioni non solo squisitamente politiche, di predominio sul resto dell’Unione, ma anche di natura economica. “Se al Sud fosse stato permesso di separarsi dall’Unione e di stabilire il libero scambio, il commercio estero avrebbe massicciamente deviato dai porti del Nord verso quelli del Sud, poiché le ditte mercantili avrebbero approfittato dei bassi dazi doganali o del regime di libero scambio vigenti al Sud”. Insomma, non proprio una questione di diritti umani. E dovrebbe ulteriormente far riflettere il fatto che perfino le cosiddette cinque tribù civilizzate dei pellirossa — Cherokee, Choctaw, Chickasaw, Creek e Seminole — parteggiassero apertamente per la Confederazione. Ve n’è abbastanza per riscrivere — o quantomeno, in buona parte, correggere — intere pagine di alcuni manuali di scuola. Quello che invece avviene dopo la guerra di secessione è oggetto di due dettagliati capitoli, il VII, che descrive La Ricostruzione, condotta dal Nord in modo punitivo nei confronti del Sud e con modalità tali da porre le basi per incomprensioni e per risentimenti che pregiudicarono a lungo la convivenza fra bianchi e neri; e l’VIII, su Come la grande imprenditoria rese gli americani più ricchi, che illustra la ripresa economica del Paese.

Tuttavia, l’ascesa internazionale degli Stati Uniti d’America come potenza geo-politica incontrastata è senz’altro la Grande Guerra (1914-1918), che insanguina  l’Europa per quasi cinque anni decretando al contempo la fine di quattro imperi, tre dei quali plurisecolari, l’asburgico, il russo, il germanico e l’ottomano. Woods lo spiega nel capitolo IX, La Prima Guerra Mondiale, illustrando i due pesi e le due misure usati dal presidente Thomas Woodrow Wilson (1856-1924) nei confronti della Gran Bretagna da una parte e della Germania dall’altra. Persuaso che occorresse entrare decisamente nel conflitto per dettare poi le condizioni al tavolo della pace, Wilson motiva l’ingresso in guerra sostenendo che […] gli Stati Uniti avrebbero combattuto per l’affermazione di grandi princìpi morali”: non semplicemente per sconfiggere l’Impero germanico, quindi, ma per sradicare ogni forma di autoritarismo nel mondo, rivendicando addirittura la difesa dell’intera umanità. Sappiamo come è andata a finire dopo il trattato di pace di Versailles, del 1919, esageratamente punitivo contro la Germania, vista come “l’epitome dei mali del mondo”, a spianare la strada al revanscismo del nazionalsocialismo di Adolf Hitler (1889-1945) e, quindi, al nuovo conflitto mondiale (1939-1945), affrontato in tutti i suoi riflessi in due ampi capitoli, il XIII, Verso la Seconda Guerra Mondiale, e il XIV, La Seconda Guerra Mondiale: strascichi e conseguenze. Vado oltre, per concludere, credo che sia importante procedere nel segnalare il XII capitolo, I simpatizzanti comunisti esistevano sul serio negli Usa. Dopo la II Guerra Mondiale, inizia una nuova guerra globale, silenziosa ma non meno insidiosa, la cosiddetta Guerra Fredda (1945-1991), Woods dedica questo capitolo a confutare leggende nere come quelle che hanno investito figure-chiave della battaglia anticomunista, quale, su tutti, il senatore del Wisconsin Joseph Raymond McCarthy (1908-1957). Offrendo numerosi esempi dalla stampa nazionale dell’epoca, Woods dimostra che il problema delle spie filosovietiche era reale — almeno 350 americani avevano rapporti con il nemico — e altrettanto reale era la congiura del silenzio che occulterà per anni i crimini contro l’umanità compiuti dai sovietici, come quello perpetrato da Iosif Vissarionovič Džugašvili detto “Stalin” (1878-1953) nei confronti dell’intera popolazione ucraina, che subisce fra i 5 e i 7 milioni di morti. In ogni caso, se davvero McCarthy avesse spinto il Paese nel terrore non si comprende come mai i sondaggi di quegli anni lo indicassero come uno degli uomini più ammirati d’America e, perfino degli esponenti autorevoli dell’intera famiglia dei Kennedy.

DOMENICO BONVEGNA

dbonvegna1@gmail.com