Federica Badalini: Misurarmi con le mie emozioni e con la musica è stato un lavoro continuo di crescita personale

Federica Badalini, pianista e compositrice, nasce a Milano e comincia a studiare pianoforte all’età di 6 anni. Si diploma in pianoforte presso il Conservatorio Paganini di Genova sotto la guida prima del M°Ada Mauri (pianista del Teatro alla Scala di Milano) e poi del M° Anita Porrini (allieva e assistente del M°Arturo Benedetto Michelangeli). Successivamente si perfeziona in musica da camera con il M°Victoria Terekiev e segue masterclass con il M° P. Badura Skoda e con il M°A. Kontarsky. Si laurea inoltre in filosofia estetica con un tesi su ‘La forma musicale in Balthasar’ presso l’Università Statale di Milano, relatore Stefano Zecchi.
Ben presto sente l’esigenza di spaziare anche verso generi diversi e di affacciarsi verso esperienze musicali innovative. Segue il corso di composizione di musica da film con il M° Nicola Piovani presso l’Accademia Chigiana di Siena. Inizia a collaborare con la Cineteca Italiana di Milano e con la Cineteca Griffith di Genova per la composizione di colonne sonore per film muti; tra i più importanti ‘Metropolis’ (Lang), ‘Nosferatu’ (Murnau), ‘La corazzata Potemkin’ (Ejsenstein), ‘Il Pellegrino’ (Chaplin) (Realizzato con il particolare accompagnamento di strumenti giocattolo), ‘The Caretaker’s Daughter (McCarey) (musicazione premiata al festival internazionale del cinema muto ‘Strade del Cinema’ di Aosta), ‘The Cameraman’ (Keaton), ‘ Il Gabinetto del Dott. Caligari’(Wiene) composti ed eseguiti dal vivo con diverse formazioni cameristiche nelle principali rassegne cinematografiche di tutta Italia.

Da quello che leggo appari come una ragazza ambiziosa e molto sicura. Quanto impattano nel tuo tempo e nella tua energia le emozioni? Chi è veramente Federica Badalini?

Ambiziosa, magari in parte.. Sicura di me.. ci sto lavorando Sono sempre stata molto timida, da piccola vivevo in un mondo tutto mio, e la musica era il mio rifugio, il luogo dove entravo in contatto profondo con quelle emozioni che non riuscivo a esprimere. Misurarmi con le mie emozioni e con la musica è stato un lavoro continuo di crescita personale, specialmente le prime volte che mi sono trovata su un palco. Non è facile mostrare al pubblico le parti più profonde di te, condividere le tue emozioni senza filtri. Questo aspetto all’inizio mi spaventava, ora lo trovo bellissimo .. e a volte mentre suono mi dico: questa sono io. Il lavoro più difficile è stato trasportare questa sensazione così bella nella vita.

La musica è un viaggio umano che coinvolge tutti i sensi. Qual è stata per te la sfida maggiore?

La sfida maggiore è stata da sempre quella contro la mia timidezza e anche la mia forte emotività, che se da un lato credo sia un tratto indispensabile per chi produce arte, da un altro lato paradossalmente a volte rischia di bloccarti e allontanarti dalle emozioni più autentiche.
Un’altra sfida importante è stata quella di trovare la mia identità musicale nel meraviglioso caos che la musica ti provoca. Vengo dalla musica classica, ma ho suonato anni in una band metal e poi ho studiato jazz, ho sempre cercato di trovare una mia identità musicale che permettesse di esprimere tutte le mie sfaccettature, non è stato facile ed è una sfida continua.

Quale suono ferma il tempo?

A volte, quando suono, mi capita di andare come in trance, ci sono dei passaggi musicali, delle sequenze di accordi, di note che mi toccano così profondamente da darmi la sensazione di essere in un vortice, da farmi sentire un buco nello stomaco, è quasi una sofferenza fisica da quanto è profonda. Quando provo questa sensazione, il tempo si ferma. Se questa emozione è condivisa con il pubblico, la sua bellezza si moltiplica.

C’è ancora poesia nella musica oppure la tecnologia ha fatto perdere di vista l’arte?

Non voglio demonizzare la tecnologia, credo che possa essere usata anche in maniera positiva per moltiplicare le possibilità di espressione artistica, dipende dal limite che ognuno di noi si pone. Se c’è sotto un valore artistico la tecnologia può essere un quid in più, se manca l’arte
credo che alla lunga nessuna tecnologia possa fare la differenza. Io, personalmente, non riesco a immaginare esperienza più intensa di essere sul palco con il mio pianoforte acustico, ma siccome la sperimentazione mi piace, in futuro chissà.

Ci sono volte in cui ti domandi: chissà come sarebbe stato se avessi preso un’altra strada?

Me lo chiedo quasi ogni giorno.. Ho tante passioni: disegnare, dipingere, la filosofia, la psicologia, la poesia. Sono una persona curiosa verso la vita e verso me stessa.

Raccontaci come nasce un tuo progetto musicale…

Nasce quasi sempre da un’idea, un lampo, a cui segue sempre un periodo di tormento e sofferenza che si dissolve solo quando finalmente il brano o il progetto trova il suo compimento. A volte questo processo è abbastanza breve, a volte può durare mesi, a volte ha bisogno di essere lasciato in pausa e ripreso in un momento più idoneo. È sempre uguale ma sempre diverso.

Nel mondo di oggi dove conta soprattutto apparire, quanto bisogna veramente essere?

Forse sono un po’ idealista, ma credo che ‘essere’ sia ancora indispensabile per trasmettere davvero emozioni, il solo apparire non può raggiungere la stessa profondità.

L’Italia è un Paese di talenti. Dalla musica alla medicina, dalla moda al cinema. Ma anche di continui blocchi e interferenze, per non parlare dei pregiudizi. Perché una persona di talento deve sempre e comunque avere un “padrino” per emergere? Com’è stato doversi confrontare con un Paese che non aiuta – come dovrebbe – gli artisti?

Questo è un discorso molto complicato, è veramente difficile lottare con tutti i pregiudizi e le difficoltà da parte di molti nel riconoscere gli artisti come lavoratori. Detto questo credo che a volte queste difficoltà possano anche diventare un’alibi, soprattutto quando le motivazioni non sono mosse da una profonda passione. Nonostante tutto credo ancora nel talento senza “padrino”.

Molti sostengono che tutto ciò che doni al mondo, torna indietro in moltissime forme inaspettate… Tu quanto ci credi?

Sì, in un certo senso ci credo, ma forse a volte abbiamo la pretesa di capire in quale modo ci debba tornare indietro e questo ci impedisce di avere la mente aperta e di cogliere le sfumature.