Da quanto questo drammatico scempio sia insopportabile per esorcizzarlo lo stiamo banalizzando a tal punto da farlo scemare in una sequela di eventi critici di serie b, infatti chi ha davvero a cuore la dignità dei detenuti?
Di giustizia stiamo parlando, siamo arrivati a 73 morti ammazzati in carcere, persone a cui non è stato concesso di scontare la propria pena con dignità e nel rispetto dei diritti e dei doveri tanto decantatati ma ipocritamente messi da parte. 73 garrotati dall’indifferenza, 73 appesi alla corda, oppure asfissiati, finanche bruciati. Insieme ad altri morti ammazzati per niente detenuti, per niente contenuti, per niente imputati, altri uomini appartenenti alla Polizia Penitenziaria, arresi alla sofferenza e alla solitudine imposta, in ogni caso tutti morti ammazzati.
Lo slogan in uso è che questa ecatombe certifica il fallimento del sistema penitenziario, direi di più, un vero e proprio epitaffio. Ognuno a indicare i salva vita occorrenti, gli interventi urgenti per vincere il sovraffollamento, per riorganizzare l’organico, per dare conto dell’assenza di una sanità psichiatrica davvero mortificata, e tanto altro ancora. In questo compendio di rivendicazioni, di richieste, di accuse incrociate, non c’è mai presente al tavolo degli smemorati il soggetto e complemento oggetto, l’uomo e la sua umanità, l’uomo e la sua professionalità, l’uomo e la pena giusta da scontare, gli uomini della condanna dalle persone della pena.
Si ovvia a questo silenzio assordante, con qualche altro pagliericcio buttato per terra, con una girata di chiave in aggiunta, con qualche altro rivoltoso da dare in pasto all’opinione pubblica. In questa sequenza di suicidi davvero scomposti, l’esposizione in bella mostra di qualche fiore all’occhiello non regge più la malparata, si disquisisce sulla possibilità di reinventare spazi e personale qualificato per la prevenzione del rischio suicidario e per porre termine alla inumanità imperante in spazi così ristretti e impossibili. Dove però le persone detenute sono obbligate a sopravvivere 22-23 ore al giorno.
Scrivere di questa ingiustizia della giustizia anche in un carcere, significa dare senso e contenuto al rispetto delle regole del vivere sociale, perché il carcere è società, legalità sottende fare leva sulla cultura dei valori civili, sottolineando che pagare il proprio debito con la collettività, ci consapevolizza dentro e fuori del carcere a tutelare valori quali la dignità, la libertà, il rispetto per se stessi e per gli altri.
VINCENZO ANDRAOUS