di Roberto Malini
Il ragazzo e l’airone è un viaggio interiore che Hayao Miyazaki, come un moderno Virgilio, ci invita a intraprendere, guidati dalla luce misteriosa dell’infanzia e dal fuoco che arde nel cuore della memoria. In questa pellicola, la prima del maestro dal 2013, il regista si addentra nei territori dell’anima, esplorando le profondità della psiche umana attraverso un racconto che si nutre di mito, filosofia e analisi dell’inconscio della psiche umana. Il soggetto è originale, anche se ispirato a E voi come vivrete? di Genzaburō Yoshino e La torre spettrale di Ranpo Edogawa, romanzi amatissimi dal maestro giapponese.
Il protagonista Mahito, come un novello Giasone, Dafni o Parsifal, si trova a vagare in un mondo dove vita e morte si intrecciano in un abbraccio eterno. Il tema della torre, ispirato al summenzionato romanzo La torre spettrale, diventa qui simbolo di una dimensione liminale, un confine tra il noto e l’ignoto, tra il mondo visibile e quello nascosto alla nostra comprensione. La torre stessa, popolata da creature che richiamano i tengu della mitologia giapponese, si trasforma in un tempio dell’anima, un luogo in cui le ombre del passato e le paure infantili assumono forme concrete, in cui ogni passo del protagonista è un confronto con i suoi fantasmi interiori.
Mahito, guidato da un airone enigmatico, affronta le sue perdite e le sue colpe, rivelando l’archetipo junghiano dell’eroe che, attraverso il dolore, si trasforma e si rigenera. In questo cammino, Miyazaki esplora l’inconscio e ci invita a osservare il trauma, anche quello autolesionistico, non come semplice ferita, ma come una via per il cambiamento, una ferita in cui fioriscono consapevolezza e compassione. Le anziane guide, simboli della saggezza ancestrale e dei cicli della vita, diventano custodi di un sapere antico, come le Parche greche o le Norne della mitologia norrena, senza tuttavia tessere il destino di Mahito con fili invisibili, ma guidandolo nella sua ricerca del sé e di una possibile felicità.
I paesaggi del film, ispirati ai ricordi della giovinezza di Miyazaki a Utsonomiya, richiamano non solo la bellezza della natura, ma anche la fragilità dell’esistenza, intrappolata tra il fuoco della guerra e il desiderio di redenzione. Ogni colore, ogni pennellata del maestro, sembra catturare l’eco di una ferita mai sanata, quella di un bambino che osserva il cielo in fiamme, simbolo di un passato che brucia ancora nelle sue opere. È una poetica che ci conduce, attraverso il mito di Prometeo, alla riflessione sulla responsabilità dell’artista, su come egli porti luce e speranza, ma a prezzo di una ferita personale.
Miyazaki, vate, sciamano e affabulatore, intreccia sogno e realtà, portando lo spettatore a varcare il confine tra i mondi. Come Orfeo che tenta di riportare Euridice alla luce, anche Mahito si confronta con il mistero della vita e della morte, affrontando le sue paure più profonde e giungendo infine a una nuova consapevolezza: quella della fragilità e della meraviglia della vita stessa.
“Il ragazzo e l’airone” è un inno alla vita, un’opera che, come i grandi capolavori del cinema – ma direi anche, in senso più ampio, della letteratura – ci invita a riflettere sui misteri dell’esistenza, del passaggio dall’infanzia all’età adulta, della perdita e della rinascita. È uno straordinario film di animazione convenzionale in cui ogni fotogramma è bello come un dipinto. Un’opera scaturita dal profondo del genio di Miyazaki, nella quale filosofia, indagine della mente umana, mito e creazione artistica si fondono in un poema audiovisivo che, come il soffio di un vento antico, ci accompagna, suscitando ogni nostra emozione, verso il mistero più grande: quello del futuro.