In difesa dei buoni giudici …

di Rino Nania  

Nella bagarre generata sul sistema di regolazione relativo al rientro dei migranti ci va di mezzo la credibilità delle istituzioni. Quando gli organi politici sentono la necessità di portare a compimento, coerentemente, il programma elettorale su cui hanno ricevuto il consenso e quindi la legittimazione a governare uno Stato risulta ragionevole prendere posizioni in linea con le finalità di governabilità politica. E laddove altri organi della Repubblica si frappongono strumentalmente al raggiungimento del risultato ecco che le contrapposizioni appaiono in tutta le loro evidenze.

In questi casi ci va di mezzo l’attività di un parlamento che tenta di legiferare e le norme che approva diventano problemi sul tavolo delle interpretazioni applicative, laddove si tentano forzature non in linea con le condizioni di fatto (flussi di migranti, in questo caso) che vanno tradotte in tutele di diritto per gli interessi generali della popolazione. Di contro, a volte, vi è una magistratura che deliberatamente fornisce su questo piano un banco di prova per verificare se le prerogative dei tribunali possano, d’emblée, disapplicare una previsione di legge, senza dare motivato e analitico riscontro sul perché si sia prescelto un criterio, anziché un altro.

Ossia in questi casi bisognerà verificare se i magistrati coinvolti nelle decisioni da assumere in argomento si siano, nel rispetto del dettato normativo, posti il problema di evitare lo scontro interpretativo ovvero se si siano limitati a leggere correttamente l’ordinamento europeo in materia, o ancora abbiano, tranchant, operato seguendo un metro politico-culturale, trasponendo una visione ideologica rispetto ad una valutazione analitica di impianto giuridico sulla base di dottrina e giurisprudenza vigenti. Ovviamente attraverso il comportamento tenuto dagli organi giurisdizionali si perviene a qualche ulteriore considerazione: 1) le regole ed i poteri della giurisdizione, nel loro evolversi, possono valicare i limiti fissati da un contegno che va misurato alla luce del principi, che in virtù della introdotta legge costituzionale 2/99 ha incluso nel corpo dell’art 111 della Costituzione i fondamentali del giusto procedimento: ovvero terzietà ed imparzialità del giudice; ragionevole durata del processo?

Qui forse il ragionamento rischia di condurre a considerazioni che superano l’idea tecnico-giuridica e trascendono nella interpretazione politica delle norme. Appunto qui sta l’inciampo di una certa magistratura che antepone la visione politica all’assetto del sistema normativo. Qui si dá un violento colpo di maglio ai sedimentati studi, ai principi essenziali della cultura della giurisdizione che andrebbe, sempre e comunque, salvaguardata all’insegna del bisogno di giustizia munita del necessario equilibrio.

Per cui, al di là di magistrati di magistratura democratica, come Patarnello o Amendola e delle chat, al dì là dell’ANM e del dibattito sulle toghe rosse, ciò che rileva è che in questo lacerato contesto chi ci va di mezzo è il magistrato laborioso che cerca, nello svolgimento della sua funzione, di spaccare il capello in quattro, di esercitare in maniera cristallina un potere che sa bene deve presiedere a giudizi asettici su condotte che non possono assumere i connotati di giudizi di valore. Ebbene qui emergono le necessità di evitare la violazione del paradigma che attiene al corretto ruolo ed all’esercizio delle funzioni della magistratura.