Disabilità e accoglienza sociale, la scuola è il primo luogo di emancipazione

Temi come l’inclusione sociale e l’accessibilità sono oggi finalmente riconosciuti come essenziali nella sensibilità dell’opinione pubblica, dei media e delle Istituzioni. Quando si parla di handicap si fa riferimento in primo luogo alla dimensione sociale e relazionale della disabilità, cioè allo svantaggio che la presenza del deficit causa alle persone nello svolgimento delle loro attività sociali.

 L’handicap, quindi, può variare, a parità di deficit, in base al contesto sociale in cui la persona con disabilità è inserita. Negli ultimi anni la normativa internazionale ‒ con la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità (2007) e, in Italia, con la legge 104/92 ‒ tende a porre l’attenzione soprattutto sulla dimensione sociale della disabilità, e quindi sull’handicap, e su tutto ciò che può amplificarlo o, al contrario, ridurlo. In questo àmbito rientrano i temi dell’accessibilità, del riconoscimento delle lingue dei segni e dei diritti linguistici delle minoranze, del potenziamento dell’insegnamento di sostegno nella scuola e tutti quei provvedimenti che possono favorire lo sviluppo e l’autonomia della persona con disabilità.

L’handicap può variare in base al contesto sociale in cui la persona con disabilità è inserita

La prima forma di confronto con il mondo esterno, oltre la cerchia di genitori, famiglia e amici, arriva con il raggiungimento dell’età scolare. Per i bambini diversamente abili si rendono necessari tutta una serie di accorgimenti, servizi e attenzioni che devono essere presenti all’interno degli istituti scolastici perché la scuola non sia vissuta come un trauma, ma come strumento di integrazione, crescita e conoscenza, di accettazione di se stessi in mezzo agli altri. Secondo i dati Istat, gli alunni con disabilità nella scuola italiana (di ogni ordine e grado) sono circa 338mila, il 4,1% del totale degli studenti (con un incremento del 7% rispetto all’anno scolastico precedente) (anno scolastico 2022/2023[1]). Si tratta in prevalenza di studenti maschi, e le forme di disabilità da cui sono interessati sono prevalentemente quelle intellettive (37%), dato che cresce fino a raggiungere il 48% nelle scuole secondarie di secondo grado. Seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (32%), in particolare nella scuola dell’infanzia, dove arrivano al 57%, i disturbi dell’apprendimento e quelli dell’attenzione, particolarmente frequenti nella scuola media. Le disabilità di tipo fisico hanno, dal punto di vista numerico, un’incidenza minore: le varie forme di disabilità motoria si attestano al 10%, mentre le disabilità visiva o uditiva interessano circa l’8% degli studenti, con differenze poco rilevanti tra i vari gradi di istruzione. Da non trascurare, inoltre, che circa il 39% degli alunni presenta una “pluridisabilità”, ovvero più forme di disabilità insieme, e questo è vero, in particolare, per gli studenti con disabilità intellettiva (che si trovano in questa condizione in più del 50% dei casi).

Gli alunni con disabilità nella scuola italiana sono circa 338mila, il 4,1% del totale

L’indagine realizzata quest’anno da Eurispes (Rapporto Nazionale sulla Scuola e l’Università, Eurispes, 2024) nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ha esplorato, tra le altre cose, le esperienze e le opinioni dei docenti rispetto alla presenza degli insegnanti di sostegno. Nelle scuole primarie e secondarie di primo grado italiane la maggioranza degli insegnanti (59,7%) considera adeguata la presenza di insegnanti di sostegno, mentre per il 40,3% non lo è. Il Nord si segnala per una incidenza superiore alla media di valutazioni negative. Nella propria esperienza di docente, al 62,2% degli intervistati capita qualche volta di osservare difficoltà di integrazione degli alunni diversamente abili, al 13,8% spesso, all’1% sempre; al 23,1% non capita mai. Nelle scuole secondarie di secondo grado il 70,8% del corpo docente valuta positivamente la presenza degli insegnanti di sostegno. I posti disponibili su sostegno nel sistema scolastico nazionale sono progressivamente aumentati nel corso degli anni, in ragione dell’aumento degli alunni con disabilità. Tuttavia, la scuola italiana è afflitta da una storica mancanza di docenti specializzati sul sostegno: circa un terzo dei posti vengono ricoperti da docenti non specializzati. La situazione appare particolarmente critica al Nord.

La scuola italiana è afflitta da una storica mancanza di docenti specializzati sul sostegno: circa un terzo dei posti vengono ricoperti da docenti non specializzati

Questo quadro generale pone, dunque, una serie di problemi e di bisogni che investono sia le istituzioni scolastichesia i soggetti che, a vario titolo, esercitano sul territorio una funzione educativa (biblioteche, centri sportivi, associazioni, enti religiosi, strutture che offrono servizi socio-assistenziali, ecc.), e che potremmo definire “soggetti educanti”. La sfida dell’inclusione socioculturale parte certamente dall’inclusione scolastica. L’incremento dei bambini/e e ragazzi/e con “bisogni speciali” richiede alle scuole di ogni ordine e grado l’impiego di un numero sempre maggiore di risorse umane con una formazione specifica: insegnanti di sostegno ed assistenti alla comunicazione, professionisti specializzati nell’ambito delle diverse forme di disabilità, formati per essere un ponte tra gli allievi e l’ambiente scolastico. Queste figure si trovano ad affrontare e a gestire diverse problematiche comportamentali, tra cui la mancanza di autonomia nello svolgere diverse attività, come spostarsi negli spazi scolastici, mangiare, andare in bagno e comunicare. La maggiore difficoltà è riscontrata, in particolare, dagli alunni con disabilità nella comunicazione (21%): meno nello spostarsi (13%) e nel mangiare (9%) (Istat, 2023).

La sfida dell’inclusione socioculturale parte dall’inclusione scolastica

Per farsi carico in modo totale di queste esigenze e del sostegno alle famiglie interessate da tali condizioni di disabilità, l’apporto delle Istituzioni, in primis di quelle scolastiche, non è certamente sufficiente: un approccio di welfare integrato sul territorio si è posto negli ultimi anni come indispensabile per perseguire il benessere psicofisico di bambini/e e ragazzi/e, coinvolgendo, in forme di collaborazione e co-progettazione degli interventi, i vari soggetti educanti presenti. Si è creata, dunque, una sinergia tra Istituzioni pubbliche ed enti del Terzo Settore, non profit e di volontariato, che offrono servizi nell’ambito dello sport, della formazione, e dell’assistenza socio-sanitaria, di musica, arte, cultura. Queste realtà, specialmente quando riescono a costituire una rete, più o meno formale, rivestono un ruolo di riferimento molto importante all’interno delle comunità locali, offrendo servizi che il welfare pubblico da solo non è in grado di garantire, anche per una mancanza di connessione concreta con i bisogni dei territori e con i loro mutamenti, e costituendo un volàno fondamentale per l’inclusione sociale, in particolare, delle minoranze e delle categorie svantaggiate.

Gli Enti del Terzo Settore sono molto importanti nelle comunità locali, offrendo servizi che il welfare pubblico da solo non è in grado di garantire

Vi è poi il ruolo del nucleo famigliare, che si fa carico di tutte le esigenze a cui non arrivano welfare ed istituzioni. Analizzando i dati forniti da Eurostat, emerge che il ruolo della famiglia nella gestione dell’handicap è preponderante in Italia e nei paesi mediterranei, ma anche in alcuni dell’Europa orientale e in Gran Bretagna. Viene spontaneo chiedersi se il prevalere della dimensione privata e familiare nella gestione della disabilità sia frutto di una determinata tradizione culturale o se, al contrario, sia il portato dell’inadempienza delle strutture pubbliche che costringono i congiunti ad occuparsi in solitudine dei propri disabili. L’icona di questa condizione è la madre care-giver che, ad esempio, dalla nascita del figlio con handicap mentale è impegnata 24 ore al giorno ad assisterlo, assicurandogli presenza, affetto e accudimento. Non può lavorare e ciò determina un reddito più basso del nucleo familiare. Talvolta, viene aiutata da altri componenti della famiglia, mentre l’assistenza esterna è una rara avis. Il sostegno che si ottiene nei casi di grave disabilità è esclusivamente economico, e consiste nell’indennità di accompagnamento regolata dalla legge 104/1992 (integrata con il Decreto Disabilità, pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel giugno 2024). L’erogazione delle indennità e degli altri benefici di legge è affidata alla sanità regionale, con forti disparità territoriali, riproponendo il quadro più generale di un’assistenza socio-sanitaria che eroga servizi in maniera ineguale.

Viene da chiedersi se il prevalere della dimensione familiare nella gestione della disabilità sia frutto di una tradizione culturale o dell’inadempienza pubblica

In conclusione, una reale integrazione dei cittadini con disabilità, oltre ad essere possibile, è soprattutto auspicata, un vantaggio di cui godrebbe non solamente il soggetto con il suo nucleo famigliare, ma la società tutta, non solamente il lavoratore disabile ma l’intera azienda, trasformando, in quest’ultimo caso, un obbligo legislativo in valorizzazione e produttività delle risorse. L’attenzione al valore umano della persona è fondamentale in tal senso, affinché lo svantaggio di partenza di coloro che sono affetti da sindromi, malattie o patologie che causano loro un handicap si acuisca.

Avv. Angelo Caliendo, amministrativista, componente del Consiglio Direttivo dell’Eurispes