“Woke”, “Gender” e “QIDC”

di Roberto Malini

“Woke” è una di quelle parole che non devono coglierci impreparati, in un dialogo di argomento civile o politico. Chi la pronuncia, è spesso convinto di guadagnare una posizione sulla scacchiera dialettica, perché i suoi interlocutori a volte non ne ricordano il vero significato, quasi intraducibile in italiano, né la sua storia recente. Si tratta di una parola mistificata dagli intolleranti statunitensi per ridicolizzare i giovani antirazzisti neri e bianchi nonché i loro valori di consapevolezza e solidarietà tra minoranze.

O dai complottisti di destra per negare il cambiamento climatico o paventare la presenza di un’ideologia estremista e pericolosa che orienterebbe il pensiero progressista. “Woke”, termine civile che invita a restare all’erta, consapevoli, è diventato così un termine negativo, usato con l’intento di dileggiare i movimenti giovanili progressisti e, qui in Italia, chi ha a cuore i diritti umani. Nel nostro paese, a mio avviso andrebbe usato un termine più appropriato, come “politicamente corretto”. Anche “politicamente corretto” è un’espressione tradita, in realtà, per finalità politiche e dialettiche. Come si può pensare che la “scorrettezza politica” dovrebbe essere preferibile al suo contrario?

Per me “woke” significherà sempre “Restiamo consapevoli, uniti e attivi per evitare la soppressione dei diritti”. In sostanza, se qualcuno definisce l’antifascismo come “QIDC” (“Quell’ideologia del cavolo”), da parte mia resto antifascista e non sto al gioco del “Trasforma-la-parola”. E consiglio lo stesso agli amici che si occupano di diritti umani, in difesa di gruppi sociali spesso vulnerabili. Lo stesso discorso vale per “gender”. Ha iniziato la Chiesa cattolica, se non sbaglio nel 1995, in occasione di una conferenza delle Nazioni Unite, a definire il termine con una valenza negativa (la “teoria gender”).

Era una difesa del patriarcato (basilare per alcune religioni) e dell’eterosessualità coattiva in contrasto alle rivendicazioni e alle conquiste del femminisimo e dei movimenti LGBTQI+. Penso che il giochetto delle parole capovolte, che è antico come lo storpiare i nomi di chi si avversa, non sia intellettualmente limpido né onesto. Ci vuole più coraggio, più attenzione alla verità, alla trasparenza. Al contenuto di sincerità che appartiene alle parole e che noi spesso modifichiamo con una disinvoltura che è indice delle scarsi basi morali del nostro favellare e scrivere.