Vi devo confessare una cosa: ogni volta che sento parlare di Islam e pace come se fossero due concetti agli antipodi, mi viene da sorridere. Non di quel sorriso saccente di chi la sa lunga, ma di quello un po’ amaro di chi vede quanto sia profondo il fossato tra realtà e percezione. Permettetemi di accompagnarvi in un viaggio che, ve lo prometto, vi sorprenderà.
Partiamo dall’inizio, da quella parola che tutti pronunciano ma pochi comprendono davvero: Islam. Deriva dalla radice “s-l-m”, la stessa da cui viene “salam”, pace. Ma attenzione: non significa semplicemente “pace” come la intendiamo noi occidentali. Significa “sottomissione”, “abbandono” alla volontà di Allah. È una pace che nasce dalla consonanza con il divino, non dalla semplice assenza di conflitto.
Il Corano ne parla chiaro: “O voi che credete, entrate tutti nella pace” (2:208). Ma quale pace? Non quella dei pacifisti da salotto, ma quella di chi ha fatto i conti con la natura umana in tutte le sue contraddizioni. È una pace che si costruisce mattone dopo mattone, giorno dopo giorno, attraverso quello che i mistici musulmani chiamano “il grande jihad”: la lotta contro il proprio ego.
E qui entra in gioco il sufismo, questa straordinaria tradizione mistica che dell’Islam rappresenta il cuore pulsante. Vi racconto un aneddoto. Anni fa, durante un viaggio in Turchia, mi capitò di assistere a una cerimonia dei dervisci Mevlevi, quelli che voi chiamate “dervisci rotanti”. Sapete qual è la prima cosa che imparano questi mistici danzatori? Non è la danza, come potreste pensare. È il servizio in cucina.
Rumi, il loro maestro spirituale, quello stesso poeta che oggi va tanto di moda citare nei salotti occidentali, scriveva: “Al di là del giusto e dello sbagliato c’è un campo. Ti incontrerò là.” Non è poesia da quattro soldi, è teologia profonda. È l’essenza di quella che Ibn ‘Arabi, il più grande maestro del sufismo, chiamava “la religione dell’Amore”.
Ma attenzione a non cadere nella trappola di pensare che tutto questo sia pura contemplazione. L’Islam ha una caratteristica unica: la capacità di trasformare la spiritualità più elevata in azione concreta. La “zakat”, che troppo spesso viene tradotta semplicemente come “elemosina”, è in realtà un sofisticato sistema di giustizia sociale. È uno dei cinque pilastri dell’Islam, allo stesso livello della preghiera.
E qui viene il bello. Sapete quando è nato il primo ospedale pubblico della storia? Nell’809 d.C., a Baghdad, sotto il califfo Al-Walid. E sapete perché? Perché il Corano insegna che “chi salva una vita, è come se avesse salvato l’umanità intera” (5:32). Non è retorica, è storia documentata.
Vi racconto una cosa che i libri di storia spesso dimenticano di menzionare. Il “waqf”, l’istituto della donazione perpetua, ha creato nel mondo islamico un sistema di welfare quando in Europa ancora si discuteva se i poveri avessero un’anima. Non sto esagerando. A Istanbul c’era persino un waqf che pagava qualcuno per camminare di notte per le strade con un mestolo pieno d’acqua, per dare da bere ai gatti randagi.
Al-Ghazali, quel genio persiano che nel XI secolo rivoluzionò il pensiero islamico, diceva che il cuore è come uno specchio: può riflettere il divino solo se è pulito. E come si pulisce? Attraverso il servizio disinteressato, attraverso quello che in arabo si chiama “ihsan”, l’eccellenza spirituale che si manifesta nell’azione.
Ma la pace nell’Islam ha anche una dimensione comunitaria imprescindibile. La “umma”, la comunità dei credenti, non è un concetto astratto. È una rete di relazioni, di responsabilità, di cure reciproche. Il Corano insiste: “I credenti sono fratelli: ristabilite la pace tra i vostri fratelli” (49:10).
È interessante notare come i grandi imperi islamici del passato abbiano spesso gestito la convivenza tra diverse fedi con una tolleranza che l’Europa cristiana dell’epoca si sognava. La Spagna musulmana, al-Andalus, ne è l’esempio più citato, ma non l’unico.
Questa tradizione continua ancora oggi, anche se i media preferiscono raccontarci altro. In ogni catastrofe naturale, in ogni crisi umanitaria, le organizzazioni caritative islamiche sono in prima linea. Dal Pakistan all’Indonesia, dal Medio Oriente all’Africa, migliaia di volontari musulmani mettono in pratica quello che Ibn Ata’Allah al-Iskandari chiamava “la scienza del cuore”.
Prendiamo l’esempio delle “cucine della misericordia” che durante il Ramadan sfamano milioni di persone, non solo musulmani. O i programmi di microfinanza islamica che, basandosi sui principi della finanza etica shariatica, hanno aiutato milioni di persone a uscire dalla povertà.
Certo, oggi le cose sono più complicate. Il colonialismo prima, le guerre per procura poi, il petrolio sempre, hanno creato fratture che sembrano insanabili. Ma attenzione a non cadere nella trappola del determinismo storico.
Studiosi contemporanei come Tariq Ramadan e Seyyed Hossein Nasr insistono sul fatto che l’Islam ha gli strumenti teologici e spirituali per affrontare la modernità senza perdere la sua essenza. “La pace”, scrive Nasr, “non è l’assenza di conflitto, ma la presenza attiva dell’armonia divina nella vita umana.”
Quello che molti non capiscono è che nell’Islam la dimensione spirituale e quella sociale sono inseparabili. Il grande poeta e filosofo Muhammad Iqbal lo esprimeva così: “Il segreto dell’ego è nascosto nelle parole ‘Sii come Dio'”. Non un invito all’orgoglio, ma alla responsabilità divina di prendersi cura del creato.
È questa la chiave per comprendere la pace nell’Islam: non è un concetto astratto, ma una pratica quotidiana che unisce la più alta spiritualità al più concreto impegno sociale. È quello che i sufi chiamano “il ponte tra cielo e terra”.
Cosa possiamo imparare da tutto questo? Che la pace, quella vera, non è mai una conquista definitiva ma un processo continuo. Non è un caso che il saluto islamico, “as-salamu alaykum”, sia un augurio: “che la pace sia su di voi”.
Come mi disse una volta un vecchio derviscio a Istanbul: “La pace non è una destinazione, è un modo di viaggiare.” E forse, in un mondo sempre più diviso e conflittuale, questa antica saggezza ha qualcosa di importante da insegnarci.
A patto, naturalmente, di avere occhi per vedere e cuore per comprendere. Ma questa, cari lettori, è una storia che continua a scriversi ogni giorno, nelle preghiere dei mistici come nelle azioni dei volontari, nei centri di accoglienza come nelle moschee, ovunque l’Islam viene vissuto nella sua essenza più autentica: come via di pace, di misericordia e di servizio all’umanità.
Davide Romano