Openpolis analizza il disagio giovanile: i numeri, gli impatti educativi e psicologici e la necessità di un approccio strategico e non emergenziale…
Il disagio giovanile è un tema complesso che ha guadagnato nuova attenzione a seguito della pandemia da Covid-19, ma che esisteva già ben prima dell’emergenza sanitaria. In questi anni, il dibattito sui giovani è stato segnato da un’abbondanza di informazioni e opinioni spesso frammentate, talvolta aneddotiche, e raramente supportate da dati concreti e strutturati. Questo ha reso difficile comprendere appieno la condizione di ragazzi e ragazze, che tra difficoltà economiche, cambiamenti nel benessere psicologico e sfide educative, si trovano ad affrontare sfide senza precedenti. Tuttavia, non tutti i segnali sono negativi: i giovani si sono anche distinti per la loro capacità di mobilitarsi su temi importanti e di impegnarsi per il cambiamento. Per affrontare in modo efficace il disagio giovanile, è necessario un approccio che vada oltre l’emergenza, basato su dati precisi e una visione che riconosca la pluralità delle esperienze giovanili, integrando le loro voci nei processi decisionali e nelle politiche pubbliche.
In questo contesto, Openpolis si impegna a fornire analisi e dati affidabili per comprendere le dinamiche sociali ed economiche che influenzano i giovani in Italia. Openpolis è un’organizzazione indipendente che raccoglie, analizza e rende accessibili dati pubblici relativi a temi cruciali come la povertà minorile, l’educazione, e la salute mentale, con l’obiettivo di promuovere politiche più efficaci e inclusive. I dati utilizzati in questo contesto provengono da fonti ufficiali come Istat, l’Istituto Superiore di Sanità e altre ricerche demoscopiche, che forniscono un quadro preciso e aggiornato delle condizioni in cui si trovano i giovani oggi.
Del resto, nell’affrontare la questione, il primo ostacolo è proprio la possibilità di reperire informazioni qualificate, strutturate e di qualità sulla condizione di ragazze e ragazzi dopo il Covid attraverso i dati. Ancora più che in altri ambiti, il panorama informativo e la discussione sul disagio giovanile si caratterizza per l’elevata infodemia. Un neologismo inserito dalla Treccani proprio nel pieno dell’emergenza sanitaria, definibile come “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili”.
Terminata l’emergenza Covid, alcuni dati possono aiutarci a capire cosa sia successo in quella fase storica e quali siano oggi le ripercussioni sulla vita dei più giovani. La didattica a distanza e le chiusure prolungate delle scuole hanno sicuramente avuto un impatto in termini di apprendimenti, pagato soprattutto dagli studenti svantaggiati.
E tuttavia non tutti i segnali sono negativi, se si guarda alla capacità dei giovani di mobilitarsi su temi che hanno a cuore e di impegnarsi in modo organizzato per essere agenti di cambiamento nel mondo in cui vivono. Se c’è un problema nella condizione attuale di bambini e ragazzi, e sicuramente c’è, non sarà un approccio emergenziale, dettato da una logica catastrofista, a risolverlo. Solo interventi sociali e politiche pubbliche costruite con il coinvolgimento attivo dei più giovani, e indirizzate alle loro necessità ed esigenze, potranno farlo.
Nel giugno dell’anno scorso, un’indagine demoscopica promossa da Con i Bambini e Demopolis ha fatto emergere come il 54% degli adolescenti intervistati ritenga di non essere capito dagli adulti. Un’opinione peraltro condivisa dal 45% dei genitori.
Questa tendenza porta a interrogarsi sui fattori che ne stanno alla base, con particolare attenzione al disagio vissuto da bambini e ragazzi durante e dopo la pandemia. Un disagio che è innanzitutto di natura sociale ed economica: secondo le stime di Istat, pubblicate il 17 ottobre scorso, quasi il 14% dei minori nel 2023 si è trovato in povertà assoluta. Ovvero l’incidenza più elevata della serie storica dal 2014, a seguito della revisione metodologica avvenuta negli ultimi anni. Dopo la pandemia, i bambini e ragazzi che vivono in famiglie in povertà assoluta sono arrivati a sfiorari gli 1,3 milioni.
In termini educativi, gli anni di pandemia si sono segnalati per un calo netto negli apprendimenti. Nel 2022 quasi uno studente su 10 (9,7%) in quinta superiore si è trovato in dispersione implicita, vale a dire nella situazione di chi, pur portando a termine gli studi, lo fa senza aver raggiunto competenze di base adeguate.
Una crescita significativa rispetto a prima della pandemia: gli alunni in dispersione implicita erano il 7% nel 2019. Il fenomeno ha riguardato soprattutto gli studenti svantaggiati: gli alunni con alle spalle una famiglia in condizione medio-bassa sono passati da una dispersione implicita dell’8% nel 2019 al 12% nel 2022.
Con il superamento dell’emergenza, i livelli di dispersione implicita sono tornati a calare: nei test del 2024, per la prima volta, si è assistito a una contrazione che porta la quota di studenti di quinta con apprendimenti insufficienti nelle materie di base sotto i livelli pre-Covid (6,6%).
Un dato molto significativo e positivo, che però non deve far dimenticare gli sforzi ancora necessari per recuperare la situazione precedente la pandemia.
Se si isolano gli studenti di quinta superiore con apprendimenti insufficienti in italiano, quasi il 44% non raggiunge livelli adeguati, e di questi il 18,7% si attesta su risultati del tutto inadeguati. In matematica queste due percentuali salgono rispettivamente al 47,5% e al 25,5%.
Una crisi educativa con conseguenze quindi di lungo periodo, che può essere il sintomo di qualcosa di più profondo nel benessere sociale e psicologico di ragazze e ragazzi. Nella pandemia, complice la necessità di mantenere il distanziamento fisico, sono emersi alcuni segnali di rarefazione nei rapporti sociali, anche e soprattutto tra i giovani.
Durante il Covid, in base alle rilevazioni svolte dall’istituto nazionale di statistica, il 50,5% degli alunni delle scuole secondarie ha riportato una diminuzione nella frequentazione di amiche e amici, con un parallelo incremento nell’utilizzo di chat e social media per comunicare (in crescita per circa il 70% dei ragazzi).
Tendenze che l’emergenza in realtà sembra solo aver accelerato, e che spesso erano già in corso da prima della pandemia. Nel 2005, la quota di giovani che dichiaravano di vedere tutti i giorni i propri amici era pari al 70,8% tra 11 e 14 anni e al 72,2% tra 15 e 17. Nel 2019, quindi già prima del Covid, la quota era crollata rispettivamente al 34,3% e al 39,1%.
L’emergenza ha ovviamente contribuito ad aggravare il fenomeno: nel 2021 la percentuale di giovani 11-14enni che vedono gli amici tutti i giorni è scesa 18,4% (20,4% tra i 15-17enni). Ma, in uscita dall’emergenza, la quota non appare comunque recuperata rispetto al pre-pandemia: nel 2023 dichiarano di vedere tutti i giorni i propri amici il 27,6% degli 11-14enni e il 30,1% dei 15-17enni. Sicuramente molto lontano rispetto al 70% della generazione precedente.
Oltre alla rarefazione nelle relazioni sociali, durante la pandemia si sono registrati diversi segnali di peggioramento nel benessere psicologico tra i minori. Rispetto a questa tendenza, va segnalato il grande sforzo della comunità scientifica nell’indagarne le cause, specialmente dopo la pandemia.
Va in questa direzione la ricerca promossa dall’autorità garante per l’infanzia (Agia) insieme all’istituto superiore di sanità (Iss), da cui emergono una serie di fattori di rischio, sia endogeno (relativo al minore e alla sua famiglia) che esogeno (riferiti al contesto in cui vive). Mostra alcune avvisaglie in questa direzione anche l’indice di salute mentale raccolto da Istat per gli indicatori del Bes (benessere equo e sostenibile). Si tratta di una misura di disagio psicologico che fa sintesi, attraverso le risposte a questionari specifici, delle quattro dimensioni principali della salute mentale (ansia, depressione, perdita di controllo comportamentale o emozionale e benessere psicologico). L’indice di sintesi varia tra 0 e 100, con migliori condizioni di benessere psicologico al crescere del valore dell’indice.
Anche in questo caso, con la pandemia si registra un peggioramento. L’indice di salute mentale medio tra i 14-19enni nel 2021 è calato a 70,3, dal 73,9 registrato nella rilevazione dell’anno precedente. Nel 2022 l’indice di salute mentale tra gli adolescenti è tornato a migliorare (72,6), per poi scendere nuovamente l’anno successivo (71 nel 2023). Con un divario di genere che vede un minor benessere psicologico per le ragazze (con un indice di 67,4 per le giovani di 14-19 anni nel 2023) rispetto ai ragazzi (74,3).
Da questa indagine è emerso che si possono stimare in 65.967 gli studenti tra 11 e 17 anni con tendenza all’isolamento sociale nei sei mesi precedenti la rilevazione. Ovvero l’1,6% del totale, sulla base del campione rappresentativo della popolazione studentesca selezionato da Iss.
Basandosi sul campione rappresentativo, si possono stimare in quasi mezzo milione i ragazzi a rischio di internet gaming disorder, ovvero “l’uso persistente e ricorrente di Internet per partecipare a giochi, spesso con altri giocatori, che porta a compromissione o disagio clinicamente significativi per un periodo di 12 mesi”. Mentre oltre 370mila studenti 11-17enni (il 9,3% del campione) potrebbero presentare un grave rischio di dipendenza da cibo. La dipendenza da cibo è un comportamento alimentare che implica il consumo eccessivo di alimenti specifici, altamente appetibili (cioè cibi ricchi di sale, grassi e zuccheri) in quantità superiori al fabbisogno energetico omeostatico (Iss).
In un paese con 1,3 milioni di minori residenti con background migratorio, un altro aspetto indagato dopo lo scoppio dell’emergenza è stato l’impatto di fenomeni di discriminazione e bullismo, grazie alle rilevazioni specifiche di Istat. Durante la fase più critica della pandemia (marzo 2020-estate 2021), circa 1 studente su 10 delle scuole secondarie ha dichiarato di aver subito episodi di bullismo o cyberbullismo, con un’incidenza che sale tra i soggetti a maggior rischio di esclusione, come i minori stranieri. La quota raggiunge infatti il 18,2% tra bambini e ragazzi con cittadinanza non italiana. Anche le ragazze sono tra i soggetti più a rischio di episodi di bullismo: il 3,9% delle studentesse dichiara di essere stata presa di mira con racconti di storie diffamatorie sul proprio conto. Molto più dei maschi (2,3%).
Oltre alle discriminazioni, un altro aspetto su cui la pubblicistica si è molto concentrata nel corso della pandemia è quello dei fenomeni di violenza, dal tema delle baby-gang a quello più generale della criminalità giovanile. Tra i riferimenti più autorevoli sul tema, spicca un’indagine ad hoc realizzata da Transcrime, centro di ricerca interuniversitario delle università Cattolica di Milano, Alma mater studiorum di Bologna e dell’università di Perugia, in collaborazione con i ministeri di giustizia e interno. Quella analisi ha sottolineato, molto chiaramente, come la questione rimanga al centro del dibattito pubblico pur in mancanza di “una chiara definizione di questo fenomeno e dati sistematici che permettano di monitorarlo”.
Il presupposto per affrontare questi fenomeni è l’utilizzo di definizioni e dati strutturati, purtroppo non sempre disponibili. Si tratta dello strumentario minimo per rifuggire approcci ideologici che mortificano questioni tanto complesse come quelle viste fin qui: dai ritardi educativi al disagio psicologico, dalla crisi nei rapporti sociali all’emergere di fenomeni di violenza o di comportamenti a rischio.
Il pericolo di ridurre a una caricatura la condizione giovanile è molto elevato. Anche alla luce del fatto che i giovani hanno dimostrato di essere anche altro, in questi anni. Tra 15 e 24 anni, quasi 2 giovani italiani su 3 si dichiarano molto preoccupati per il cambiamento climatico; molto più della media della popolazione, pari al 53%. La quota di 18-19enni che hanno preso parte ad associazioni ecologiche, per i diritti civili e per la pace è superiore rispetto al resto della popolazione (2,4% contro una media del 1,5%). E appare in crescita la quota di chi, tra 14 e 17 anni, presta attività gratuite in associazioni di volontariato (6,8% nel 2023, in aumento rispetto al 6,4% dell’anno precedente e al 3,9% del 2021).
Al netto di problemi e difficoltà, come abbiamo visto in parte anche pre-esistenti alla pandemia, oltre 6 giovani su 10 tra 14 e 19 anni esprimono un giudizio positivo sulle proprie prospettive future nei prossimi 5 anni. Un altro, ennesimo, segnale di come servano ulteriori dati, più strutturati, per comprendere fino in fondo la condizione giovanile. Ma soprattutto di come solo partendo dal punto di vista di ragazze e ragazzi sia possibile migliorare la loro condizione e quella del paese. (Fonte: Openpolis)
Foto: Riccardo Venturi