di VINCENZO ANDRAOUS
La bambina a piedi scalzi con la neve tra le dita, bruciata la pelle dal colore di sangue. I bambini avvolti nei sudari di odio e pietà tra gli scaracchi lasciati di traverso. Donne ferite e scaraventate indietro a morire con il respiro che non esce dai polmoni. Vecchi depredati di memoria umiliati e ammazzati senza fare rumore. Le orme diventano tracce da cancellare, da mimetizzare dalle verità contrapposte nei silenzi imposti.
Il tempo dei raccolti non è più avanti di una folata di vento, rimangono i crateri scavati dalle bombe, dalle parole quelle più ingiuste, inumane quanto una scrollata di spalle. Le parole dette in fretta per non dire niente, le parole quelle scritte dai potenti ben allineati in fila per tre, con il sudore sulla fronte, non della fatica, ma della paura. Quel Bimbo nasce con gli occhi aperti al mondo della fede che ognuno professa, nasce con il resto già dietro, come la vita umana che diventa proprietà da indicare di volta in volta in qualche dimora privata, dentro una preghiera sgangherata, in una caramella donata a chi ha bisogno, una sorta di sacrale eredità che ci illude di potere ipotecare un pezzo di futuro.
Bambini nelle pozzanghere ghiacciate, denudati di ogni orpello, di qualunque commiserazione, a ogni piè sospinto il passato ricompone diabolicamente la sua trama, il maneggio delle onestà e delle in-giustizie hanno cambiato di abito, hanno rubato nuovamente le calze a quei piedini scarnificati di cura e di attenzione. Si è Natale per le genti e per le greggi, è Natale di deliri di onnipotenza, di potere che non consegna servizio, ma pretende stive piene di dobloni e di sesterzi, mentre i corpi dei piegati e dei piagati arrancano tra luci e grida di vittoria per sopportare il carico di ignoto che abbiamo favorito senza vergogna né dignità.
E’ Natale è Natale, gli echi di lontano, così vicino da infrangere la quiete vigile del Bimbo che nasce, degradati i rapporti umani, nelle differenze in tutte le sue rappresentazioni, sempre più assenti le indicazioni valoriali, nello sgretolamento di punti fermi, quali il rispetto e la solidarietà umana. Natale è quella bambina a piedi scalzi al gelo di quel campo circondato di filo spinato, ignominia dell’indifferenza per un piatto di minestra, poco più in là, i nuovi predoni pregano un Dio già morto e sepolto non dalla terra madre, ma dalla polvere di parole, di significati da assegnare a qualcosa o a qualcuno per riappropriarsi di un potere oramai scarnificato di giustizia sociale, la società una sorta di malattia terminale. Natale è Natale.