L’INTERVENTO: LA SCUOLA CHE VOGLIAMO

Nel mio consueto sguardo mattutino ai giornali online ho trovato qualche buona notizia sulla scuola, apprendo che il ministro Valditara firma il decreto di introdurre nella scuola Primaria (elementare) i classici giudizi sintetici (ottimo, distinto, buono, discreto, sufficiente, insufficiente). Per la scuola secondaria di primo grado, la valutazione della condotta degli studenti sarà espressa in decimi: coloro che otterranno un punteggio inferiore a 6/10 non saranno ammessi alla classe successiva o all’esame conclusivo del primo ciclo.

Tutto questo è considerabile per la CGIL e le opposizioni di Centrosinistra come un regime “sanzionatorio di punizione”. Si sta cercando di riparare al disastro scolastico come più volte è stato descritto dai coniugi Paola Mastrocola e Luca Ricolfi? E’ un auspicio che stiamo attendendo da tempo. Dopo aver letto diverse recensioni e citazioni ho avuto finalmente l’opportunità di leggere il testo, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, pubblicato da La nave di Teseo (2021, e.19,00; pag. 270) Per la prima volta insieme, i due docenti ora in pensione, hanno scritto un libro per denunciare il danno che la scuola cosiddetta “democratica”, ma anche “progressista” ha paradossalmente fatto nei confronti dei più deboli.

Mastrocola e Ricolfi sostengono con la forza dei dati che a scuola abbassando l’asticella delle competenze, cioè facendo diventare una scuola facile e di bassa qualità, allarga il solco fra i ceti alti e i ceti bassi. Il libro è un atto di accuse, spietato e dolente, ma al tempo stesso “un atto d’amore verso il mondo della scuola e dell’università, i docenti, gli studenti”. E’ un grido di allarme che i due docenti hanno lanciato più volte nei loro libri, in questi anni. Un allarme che qualcuno ha accolto? Forse si, ho letto da qualche parte, che la stessa presidente del Consiglio Meloni, qualche anno fa, ha avuto un colloquio di studio con il professore Ricolfi per capire e ascoltare le sue tesi sulla scuola. Anche se per cambiare direzione nella scuola, non bastano solo le direttive dall’alto, serve la cooperazione di tanti fattori.

Tuttavia il testo dei docenti torinesi, può essere una buona base di partenza perché la scuola torni ad essere vera scuola, anche se non pretende di essere concepito come una “bibbia” da seguire ciecamente. Vuole essere come loro stessi scrivono, “un atto di testimonianza”, “un atto dovuto”. “Un gesto di vicinanza, di solidarietà, verso coloro che hanno pagato a caro prezzo i cambiamenti della scuola e dell’università”. Il libro racconta quello che hanno visto, con i loro occhi, nella scuola negli ultimi sessant’anni. “Un film che nessuno vuole vedere, forse perché troppi produttori, sceneggiatori, registi, attori, comparse hanno lavorato alla sua produzione. Ma è un film che, ora che il danno è fatto, è doveroso e giusto rivedere”.

Il testo inizia con la tesi che i fautori della “scuola democratica” (chi potrebbe essere per una scuola NON-democratica) sono convinti che a bloccare gli studi dei ragazzi svantaggiati economicamente e socialmente sia la loro condizione di partenza: è impossibile raggiungere la meta o studiare (diploma o laurea) se si è nati in una famiglia povera. Chi nasce bene va avanti, anche se poi non studia, non ha mai aperto un libro o abbia raccolta una serie infinita di insufficienze, va avanti lo stesso. Come? per Ricolfi, attraverso le scandalose lezioni private, tenute nel pomeriggio, da quegli insegnanti del mattino a scuola. E’ una vergogna della scuola. Il professore parte dal figlio dell’idraulico che non fa il liceo e non arriva a laurearsi. Ma la questione non è perché proviene da una famiglia poco scolarizzata, non riesce perché “ha fatto una scuola che non lo ha preparato abbastanza”. Perché la scuola è stata abbassata, facilitata, con lo scopo di aiutare le classi medio-basse. Invece Ricolfi ribadisce che “abbassare il livello culturale dello studio non è democratico, anzi, è il contrario: è il gesto più antidemocratico e classista! Favorisce i ricchi e i privilegiati, che possono non studiare e, grazie a fenomeni quali le lezioni private a gogò, ce la faranno sempre”. Come possono fare le scuole migliori, i ragazzi provenienti dei ceti meno abbienti, se la scuola non gli ha insegnato niente?

Insomma, se un ragazzo non sa scrivere, se non sa fare un discorso compiuto, se non sa capire il senso di quello che legge e se non sa ripetere con parole sue quel che ha studiato, “Siamo stati noi a farne uno svantaggiato, uno che non parte uguale, che non ha le stesse opportunità iniziali”. Così abbiamo contribuito alla dispersione scolastica che non è solo per l’estrazione sociale o l’handicap familiare e ambientale, “ma anche per l’enorme buco di conoscenze e cultura di cui noi, come insegnanti e governanti siamo drammaticamente responsabili”. Peraltro poi il professore nel testo dimostra che esiste anche un altro tipo di dispersione ed è quello dei più meritevoli, succede quando in classe i professori sono costretti a fare sempre le stesse cose elementari per recuperare gli alunni che non ce la fanno, i meritevoli si perdono per noia.

Il testo è diviso in due parti (“Con i miei occhi”) nel capitolo 2 racconta Ricolfi; nel 3, Mastrocola.

Il professore inizia il suo racconto definendo il livello della scuola come l’ha vista lui negli ultimi vent’anni: un disastro, anzi la parola appropriata è una catastrofe cognitiva, una vera collezione di catastrofi cognitive. E inizia a raccontare che cosa ha visto concretamente agli esami degli studenti, in particolare delle studentesse. In questo caso il professore si riferisce al suo insegnamento di analisi dei dati, che lui stesso ammette di essere una materia difficile. Naturalmente sorvolo alcuni particolari, il professore non fa i nomi, ma utilizza un nome fittizio, “Martina”, che non è semplicemente “impreparata”, il punto è che non capisce le domande. Dopo una decina di domande e di non-risposte, risultato: è insufficiente non perché non arriva al diciotto per un pelo, ma perché è lontanissima. E poi quella estrema minoranza di studenti che prende 30, rispetto alla stragrande maggioranza sotto la sufficienza, c’è un abisso cognitivo, di organizzazione mentale e di capacità di assimilazione.

Per non parlare della padronanza della lingua italiana. A questo punto Ricolfi si chiede: che cosa ha prodotto un simile abisso? Buona parte è colpa degli studi precedenti. Chi prende 30 e lode, ha fatto certamente il Liceo Classico. Mentre gli altri, soprattutto chi va male, il quadro è terrificante: hanno cambiato professore cinque volte in cinque anni; nella tale materia il professore non faceva il programma ma e insegnava altre cose e via di questo passo. Alla fine Ricolfi dalla sua analisi conclude: “Martina non ce la farà mai. Può studiare quanto vuole, impegnarsi allo spasimo, ma il suo software mentale ha limiti intrinseci, strutturali, probabilmente definitivi”. Forse potrà strappare un 18, ma solo perché oggi l’università va così. Che cosa è successo a questi studenti che non ce la fanno? Per Ricolfi è come se avessero avuto nel cervello una sorta di tara, che avessero subito una lesione, che impedisce di fare pensieri adulti, ossia non elementari come quelli di cui è capace un bambino.

E qui il professore cerca di autogiustificarsi, ci tiene a precisare che lui non crede che esistono grosse differenze innate fra i cervelli degli esseri umani, nascono in qualsiasi posto, con qualsiasi colore della pelle. Tolti i geni e quelli con gravi handicap, l’essere umano ha lo sviluppo mentale normale, che se si impegna e l’ambiente gli fornisce le opportunità giuste, può raggiungere e completare qualsiasi corso di studi. Pertanto è impossibile che metà o quasi degli studenti sia nata con gravi handicap mentali o che abbiano subito a causa di incidenti, operazioni chirurgiche che hanno danneggiato irreparabilmente i loro cervelli. Che cos’era accaduto? Il professore per avere la risposta racconta l’esperimento dei “gattini ciechi”, fatto da due neuroscienziati negli anni sessanta. Ma non ho il tempo di raccontarlo, mi limito a scrivere che per Ricolfi ai suoi studenti è successo la stessa cosa di quei gattini ciechi, (che gli avevano cucito gli occhi) cioè con tutta la buona volontà possibile a Martina è difficile recuperare, quello che non ha acquisito al momento giusto.

Perché esistono anche i periodi critici in campo cognitivo. “Certe capacità e abitudini, dalle più semplici (tenere un quaderno ordinato) alle più complesse (manipolare i simboli di un linguaggio artificiale) non si possono imparare a qualsiasi età e in qualsiasi successione”. Ecco spiegato perché quello della scuola e dell’università non è semplicemente un disastro, ma esattamente una catastrofe.”Dopo un disastro si può ricostruire. Dopo una catastrofe no, o solo in piccola misura, o molto tempo dopo”. Infatti, al cervello di Martina, è successo che dopo “21 anni di istruzione, dalla scuola materna alla laurea magistrale, il danno inferto alle sue capacità cognitive appare difficilmente riparabile”. Arrivati a questo punto, bisogna porre la domanda: “Chi ha cucito le palpebre a Martina”? Non è solo colpa di certe riforme sciagurate della scuola, dell’ideologia progressista del sessantotto. Non è solo colpa dei politici, ma è il risultato di un cambiamento complessivo della società italiana, che ha accettato e gradito quelle scelte e mai seriamente combattute. E’ la scuola facilitata, quella dello slogan: “la scuola dell’obbligo non può bocciare”, il “diritto al successo formativo”, che ha trovato negli studenti e nelle famiglie, ma anche nei media, un terreno fertilissimo su cui prosperare. E qui Ricolfi denuncia che a livello politico, neanche la Destra si è mai opposta a questa deriva della scuola, non ha mai proposto una alternativa alla scuola facilitata dalla Sinistra progressista e democratica.

Naturalmente tutto ebbe inizia nel 1962 con il varo della nuova Scuola Media riformata, senza il latino. Ricolfi racconta la sua esperienza scolastica. La battaglia dei vari picconatori della sinistra, della lunga marcia dell’abbassamento della scuola. “Ora la scuola deve adattarsi allo spirito dei tempi, che esigeva che tutti andassero avanti, assecondando le esigenze degli studenti e delle loro famiglie”. Praticamente la scuola voluta dai vari soloni progressisti, ha reso milioni di studenti inabili agli studi, con un abbassamento lento ma inesorabile, degli standard dell’istruzione sia nella scuola che nell’università. Un processo iniziato negli anni sessanta, una storia lunghissima. Per Ricolfi, la “soluzione finale”, il colpo di grazia, è stato dato poi nel 2000 dal ministro Luigi Berlinguer, l’ideologo e l’esecutore decisivo della distruzione dell’università. Si metteva una pietra tombale, su un’idea che era centrale in tutta l’epoca della vecchia scuola: “l’idea che lo studio fosse un dovere, e la conquista del titolo non fosse un diritto, bensì la giusta ricompensa  del dovere compiuto”. Vorrei continuare il racconto del professore torinese è quasi entusiasmante ma non posso abusare troppo dei miei lettori. Mi fermo in una prossima occasione continuo con il racconto di Paola Mastrocola.

DOMENICO BONVEGNA

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