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di Andrea Filloramo
Mark Twain scrive: “La verità è più strana della finzione, ma è perché la finzione è costretta ad attenersi al possibile; la Verità no”. Una storia è dunque una simulazione della realtà. Una sequenza di fatti inventati dall’autore. Questa, almeno, è il tipo di storia che a me è piaciuto scrivere quando, mettendo assieme pensieri e considerazioni sul sacerdozio cattolico pubblicati nell’ultimo decennio in IMGPress, ho scritto “ I turbamenti di un giovane prete“, un “romanzo di formazione” ma anche un “romanzo verità”, pubblicato dalla Casa Editrice BooKsprint e arricchito dalla Prefazione di Don Ettore Sentimentale, che di seguito si allega e che ringrazio sentitamente.
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A distanza di qualche anno, Andrea Filloramo torna a chiedermi una prefazione per questo ultimo scritto, lavoro in parte già noto, seppur con peculiarità e taglio diverso dal precedente, ai lettori di IMGPress, come lui stesso sottolinea nel prologo.
Pur avendo io fatto notare che generalmente questo tipo di impegno venga affidato a persona culturalmente munita di note vole bagaglio letterario in modo che possa far risuonare la ricchezza e la bellezza della forma sintattica del periodare, delle multiformi sfumature linguistiche e lessicali contenute nel testo, tuttavia l’autore ha insistito, toccando le corde dell’amicizia che ci lega, e si sa che a un vero amico non è possibile negare alcun ché.
Questo scritto si legge non quale semplice “resoconto ordinato” rispetto alle sparse considerazioni sul mondo clericale, già conosciute mediante il foglio elettronico sopra menzionato, ma quale felice e scorrevole narrazione della storia del protagonista, Paolo, che con dovizia di particolari sempre attenti ai coinvolgimenti personali, familiari, ecclesiali e sociali, rilegge la propria esistenza.
Con lo sguardo maturo e sereno scopre il filo conduttore che ha tenuto insieme le tessere del mosaico del suo esistere, nono stante le immancabili contraddizioni che la vita presenta nelle varie, svariate, molteplici e specifiche contingenze. In particolare, lo stigma che il protagonista si porta addosso, u parrineddu, e le vicende a esso connesse, consentono di approfondire un mondo e un sistema educativo che ha coinvolto direttamente o indirettamente, nella storia personale, diversi individui.
La peculiarità letteraria di Filloramo, tenendo come paradigma le vicende di Paolo, si innesta in quella simbiosi armonica di ruoli, personaggi, ambienti sociali e mondo clericale mediante le coordinate temporali della quotidianità.
Così risulta interessantissima la ricostruzione della vita socia le del dopoguerra, punteggiata di tante categorie di persone, particolarmente le più deboli, fra queste le donne che sono sempre quelle che portano il peso maggiore della povertà e della miseria.
È veramente abile l’autore nel cogliere il registro sociologico, quando intesse la ricostruzione della povera Maria Celeste per la quale chiedere l’elemosina significava esporsi allo sguardo e alle parole di chi passa e talvolta non immagina la vita oltre la mano tesa.
Il massino dell’espressione non solo verbale, quanto simbolica, è raggiunta nell’atto medesimo del riferire e raccontare il mondo clericale attraverso la descrizione dei preti che Paolo in contra in Seminario prima e nella Pastorale dopo, mettendone in risalto l’instabilità relazionale e affettiva e l’ambiente tossico, quasi un brodo di coltura, ove dominano invidia, ripicche, gruppi e persone contrapposti, rivalità, favori, favoritismi e piccinerie varie. In realtà, l’autore fa tutto questo adoperando scalpello e martello, senza remore, senza cattiveria, con molto pudore, evitando però di mettere i pannicelli caldi sulle cancrene della Chiesa.
Paolo, il personaggio centrale del romanzo-verità, paradossalmente è testimone della bellezza, della sete di sapere della gioia di vivere, della forza di costruire, della ricerca in profondi tà della verità e della libertà.
Gli aspetti appena elencati costituiscono l’intelaiatura della narrazione condotta mediante un approccio interdisciplinare, nel quale si intrecciano la psicologia dell’età evolutiva, la nouvelle théologie, la psicanalisi, la letteratura, l’antropologia esistenziale…, discipline queste che nel “sistema Chiesa” cominciavano a farsi strada attraverso la presenza di preti “scomodi”, ma che si scontravano con le panzane, le frottole le menzogne […] che ingannano la mente e i sensi, davanti alle quali alcuni ex-formatori dicono: “erano quelli altri tempi e proprio nulla si poteva fare”.
Eco di ciò è, di certo, il lavoro del prete friulano Antonio Bellina, “La Fabbrica dei Preti”, portato anche in scena da Giuliana Musso, e del quale il nostro autore ha fatto risuonare sensazioni ed emozioni nel climax ascendente dell’articolo apparso su IMGPress nell’ottobre 2016. Incastonato entro quel filone significativo che fa rivivere il sistema educativo dei Seminari italiani degli anni ’50/’60 del Novecento, il racconto di Andrea Filloramo non può non provocare e scuotere il lettore.
Questi, mediante lettura attenta al particolare, risulta in grado di saper cogliere luci e ombre di un’azione ecclesiale che, specularmente al contesto storico-sociale-culturale di riferimento, ovvero l’arco temporale del boom economico, “produceva” sì molti preti, ma con una maturità umana, affettiva e sociale dei candidati al sacerdozio poco rispondente e/o coerente al mini stero di scelti fra gli uomini e per gli uomini nelle cose che riguardano Dio (Cfr Eb 5,1).
Diventerebbe troppo semplice e facile riprendere tutti i passaggi “raccapriccianti” che l’autore nota nella crescita del piccolo Paolo fino al giorno della sua ordinazione: ne verrebbe fuori un manuale di “contro pedagogia ecclesiale”.
Vorrei citare semplicemente un aneddoto facente parte della tradizione orale del Seminario fra gli anni 50’/’60, un retaggio dello stesso periodo in cui l’autore colloca le vicende del protagonista. Si raccontava che un giovane seminarista fosse stato chiama to e severamente rimproverato dal rettore del tempo al rientro dal mese delle vacanze estive per comportamento contro il regolamento.
Che cosa era successo? Alla richiesta di informazioni presentata dal Seminario al parroco di quel seminarista e che contemplava anche la domanda: “Il giovane va in bicicletta?”
Il proprio curato aveva risposto salomonicamente: “Sa andare”.
Da qui il veemente richiamo del rettore, nonostante il chierico si dichiarasse innocente davanti a quell’accusa.
Di certo, semplicemente un aneddoto che faceva e fa sorride re, soprattutto oggi, eppure è stato causa di un’arringa pesante verso quel giovane.
Nasce spontanea la domanda: su quali fondamenti si poggia va il sistema educativo, se mancava la minima fiducia fra educando ed educatore? In tale prospettiva, desidero esternare la mia reazione alle vicende descritte in “Turbamenti di un giovane prete” e, nel farlo, prendo a prestito le parole del preconio pasquale: “O felix culpa!”.
Chi scrive ha avuto la gioia (e la fortuna) di andare in Seminario a Concilio finito da circa cinque anni, quando quasi in un rinnovato passaggio fra “Primo e Nuovo Testamento” era stato avviato il periodo dei cambiamenti della prassi quotidiana e soprattutto del progetto educativo, grazie a formatori generosi e preparati scelti con cura da un santo vescovo.
A riprova di ciò, mi sembra opportuno inserire un chiaro cambiamento di prospettiva nello stile di vita del progetto educativo del Seminario se, attorno agli anni ’70, è stata definitiva mente cancellata la percezione delle spiagge come luogo di per dizione, di impudicizia e di immoralità, inadatte ai candidati al sacerdozio allorché i seminaristi (studenti liceali e della teologia) cominciavano a trascorre il periodo delle vacanze estive comunitarie sulle spiagge delle Isole Eolie.
E oggi? “Bisogna stare attenti all’indietrismo, moda del nostro tempo, che ci fa credere che tornando indietro si conserva l’umanesimo”, come ammonisce papa Francesco.
La sfaccettatura più subdola e insidiosa di tale tendenza è il clericalismo, piaga che come una grande onda, simile a uno tsunami, pericolosamente torna a bagnare e ad abbattersi sui litorali della Chiesa Che questa, poi, dovesse cambiare atteggiamento e riappropriarsi di un progetto formativo “evangelico” nei confronti dei futuri preti era e resta un’esigenza testimoniata fra l’altro dal fat to che per ben quattro volte, in poco più di 50 anni, la Congrega zione per il Clero ha elaborato le rispettive “Ratio Fundamenta lis Institutionis Sacerdotalis” (1970, 1985, 2016, 2023) e il primo paragrafo dell’ultima edizione si apre con: “Necessità di una nuova Ratio Fundamentalis…”
Proprio dell’ultima Ratio è stato recentemente (16 novembre 2023) approvato l’Adeguamento dalla CEI con i contributi dei 10 Presuli e dei formatori e al momento attende di essere conferma to dal “Dicastero del Clero”.
Dal testo disponibile sul web, emerge che in tale aggiorna mento è stato ridisegnato l’itinerario formativo e una maggiore personalizzazione di suddetto cammino nei seminari, contrassegnato da esperienze pastorali, caritative e missionarie.
La nota più significativa e onesta, a mio parere, nell’attuale adeguamento alla Ratio 2016 è la consapevolezza dell’intero episcopato italiano che “un testo come questo, pur con l’autorevolezza che è doveroso riconoscergli, deve rimanere aperto a futuri aggiornamenti…” È chiaro che la Chiesa, almeno nei pronunciamenti, ha fatto e fa tesoro dei propri errori, costretta da una parte dalle contraddittorie vicissitudini dei presbiteri, parecchi dei quali impantanati nello stagno delle fragilità che hanno come matrice comune gli abusi di potere e sessuali, e dall’altra dalla dirompente profezia del magistero petrino di papa Francesco.
Lascio ai lettori la sorpresa di divorare e gustare questa narrazione sempre coinvolgente, ritmata da notevole drammaticità.
Tento di riprendere brevemente il fil rouge della trama del racconto per individuare l’elemento che emerge prepotentemente dalla esposizione del testo narrativo.
Pochi autori, in realtà, riescono a descrivere il rapporto di intima complicità che intercorre fra madre e figlio, così come fa Filloramo.
Dall’inizio alla fine l’autore tratteggia con accenti toccanti di impareggiabile tenerezza e concretezza il loro legame affettivo e liberante che, paradossalmente, inizia con un salto scattante del piccolo che fa scricchiolare il lettone della mamma, in quel momento priva della presenza del marito costretto a combattere, e come in un’inclusione biblica si chiude in un letto di ospedale, quando il protagonista accompagna la madre nel momento del trapasso.
Entrambi si fanno forza perché si preparano a nuovi percorsi di vita: esistenza segnata, miraggio di eternità! Infatti, dalle prime alle ultime battute della storia di Paolo emerge la funzione di una “coscienza” critica e matura, quasi personificata, nel ragazzino prima e nel giovane prete poi.
Se c’è un aspetto che vacilla vistosamente nella formazione, descritta nel “romanzo-verità”, è proprio la carenza della dimensione che sostanzia l’interiorità.
E questa non è strettamente legata alla distinzione fra bene e male, cosa relativamente facile, quanto all’avere un quadro di riferimento per valutare le situa zioni concrete.
Le scelte, compresa quella “dolorosa” di lasciare il ministero presbiterale, che il protagonista compie, risentono del conflitto di coscienza fra l’individuo e la comunità, ma lo portano sempre, anche su consiglio della madre morente, a intraprendere la via che possa dare senso, significato vero e autentico alla propria esistenza.
Se l’autore nel prologo si augura di “essere letto non solo dai preti”, mi permetto, non per fini commerciali, di consigliare vivamente la lettura di questo romanzo-verità agli “agenti” della formazione, ripresi anche nell’Adeguamento della Ratio ad opera della CEI: “Il vescovo diocesano, Il presbiterio, la comunità dei formatori, i professori, gli specialisti, la famiglia, la parrocchia o altre realtà ecclesiali…
Don Ettore Sentimentale