Santi in una città di peccatori. I Teatini e la loro battaglia per le anime di Napoli

di Davide Romano

Nel caotico teatro napoletano del Cinquecento, dove miseria e opulenza danzavano uno strano minuetto, i Chierici Regolari Teatini calarono come falchi su una preda: le anime da salvare. Non erano semplici ecclesiastici con le mani giunte e gli occhi al cielo. Erano soldati di Cristo con i piedi ben piantati nel fango della strada. E che fango era, in quella Napoli che, come scriverebbe oggi Roberto Saviano, “fagocita e divora, ti seduce e ti respinge, con la stessa selvaggia intensità”.

Arrivarono nel 1533, questi Teatini, in una città dove il confine tra sacro e profano era più sottile della lama di un coltello siciliano. Non portavano elemosine facili, non distribuivano consolazioni a buon mercato. Portavano qualcosa di più scomodo: l’esigenza della conversione. Come avrebbe detto Ennio Flaiano, “la situazione è grave ma non è seria” – loro la presero serissimamente.

San Gaetano Thiene, il beato Giovanni Marinoni, Sant’Andrea Avellino, il beato Paolo Burali d’Arezzo – nomi che oggi dicono poco all’uomo della strada, figuriamoci alla generazione dei social network. Eppure furono i Steve Jobs della carità cristiana, innovatori che sapevano guardare oltre l’emergenza del momento.

“La vera carità”, avrebbe commentato Eugenio Scalfari, “non è dare il pesce, ma insegnare a pescarlo”. E sappiamo bene che non fu neppure il primo al dirlo. I Teatini fecero di meglio: insegnarono che prima di pescarlo, bisognava purificare l’anima del pescatore.

Il loro approccio era pragmatico come quello di un manager di Wall Street, ma con finalità diametralmente opposte. Presero di mira l’Ospedale degli Incurabili – non per cambiare lenzuola o distribuire minestre, ma per qualcosa di più ambizioso: salvare anime di ladri, disertori e prostitute. Gente che la società aveva scritto nel registro delle perdite irrecuperabili.

Come diceva Pirandello, “la vita non conclude”, ma i Teatini erano determinati a farla concludere bene, almeno nell’aldilà.

Il Monte di Pietà – quello che poi divenne il Banco di Napoli – nacque così, dalla visione di chi capiva che la povertà e l’usura erano catene da spezzare. “L’economia è come il colesterolo”, direbbe oggi Carlo Rovelli, “può essere buona o cattiva a seconda di come la usi”. E i Teatini volevano un’economia buona, al servizio dell’uomo e della sua redenzione.

Marinoni non si limitò a teorizzare: convinse due ricchi mercanti, Aurelio Paparo e Leonardo Di Palma, a mettere mano al portafoglio. Non per fare beneficenza – quella roba da signore in pelliccia che nel Settecento distribuivano ceste natalizie – ma per creare un sistema. Un sistema che, come direbbe oggi Yunus, il banchiere dei poveri, “non facesse carità, ma giustizia”.

In un’epoca in cui i tassi usurari avrebbero fatto impallidire quelli di una carta di credito contemporanea, il Monte di Pietà rappresentò una rivoluzione silenziosa.

“Dietro ogni grande uomo c’è sempre una grande donna”, recita il proverbio (e dietro una grande donna? Boh!). I Teatini lo sapevano bene e coinvolsero le donne nella loro opera di rinnovamento sociale.

Giovanna Scorziata, Luisa Paparo, Costanza del Carretto – aristocratiche che avrebbero potuto limitarsi a scegliere il colore giusto per le tende dei loro palazzi. Invece, sotto la guida dei Teatini, fondarono istituti per ragazze povere, figlie di prostitute, giovani senza dote.

“La libertà non è star sopra un albero”, cantava Giorgio Gaber. Per queste donne del Cinquecento napoletano, la libertà fu creare alternative per altre donne meno fortunate.

Se i Teatini fossero un’azienda moderna, Sant’Andrea Avellino sarebbe stato il loro amministratore delegato. Un uomo che, come Steve Jobs con i suoi prodotti, era ossessionato dalla perfezione – prima di tutto la propria.

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”, scriveva Proust. E Sant’Andrea aveva occhi nuovi per vedere l’umanità, occhi che scrutavano le anime come raggi X.

Il suo voto speciale di “combattere costantemente la propria volontà” suona oggi come un concetto alieno in un’epoca dove l’auto-indulgenza è considerata un diritto inalienabile. Come direbbe Bauman, viviamo in “tempi liquidi” dove ogni forma di disciplina sembra arcaica.

Eppure, questo uomo divenne il confessore ricercato da tutti, dal popolino ai cardinali, fino al Papa stesso. San Carlo Borromeo lo definì “l’idea più viva che possiamo farci del vero apostolo”. Un influencer ante litteram, ma con contenuti ben diversi da quelli che popolano oggi i nostri schermi.

Oggi, mentre i turisti scattano selfie davanti alla Basilica di San Paolo Maggiore, pochi sanno che lì dentro riposano uomini che hanno cambiato il corso della storia napoletana. Come direbbe Umberto Eco, “i libri non scritti sono più numerosi di quelli scritti”, e così le storie dimenticate superano quelle ricordate.

In un’epoca in cui il welfare state ha sostituito la carità religiosa e le ONG hanno preso il posto delle confraternite, cosa possono dirci ancora i Teatini?

Forse che, come sosteneva Hannah Arendt, “la bontà può esistere solo quando non è percepita, nemmeno da chi la pratica”. I Teatini non facevano il bene per apparire, ma perché era inscritto nel loro DNA spirituale.

In una Napoli contemporanea, dove le emergenze sociali si moltiplicano come i caffè nei bar, l’approccio teatino – sistematico, radicale, mirante alla trasformazione dell’individuo e non solo al sollievo temporaneo – avrebbe ancora molto da insegnare.

Non è certo ma sembra che una volta Massimo D’Azeglio abbia affermato, era il 1861: “l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”. E sappiamo bene com’è finita. I Teatini, a modo loro, tentarono di fare i napoletani – non solo cristiani nelle credenze, ma nelle opere. Un’aspirazione che, cinquecento anni dopo, mantiene intatta la sua rivoluzionaria attualità.

“Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6, 20-21). I Teatini sapevano dove mettere il loro tesoro. E noi?