MARIA, LA MADRE CHE DIVIDE E UNISCE

Cinque secoli di battaglie teologiche e il sorprendente ritorno della Madonna nelle comunità protestanti…

di Davide Romano

Non c’è figura nel cristianesimo che abbia tracciato una linea di demarcazione più netta di quella della Madonna. Da una parte i cattolici con le loro cattedrali svettanti dedicate a Notre-Dame, dall’altra i protestanti con le loro chiese austere dove di Maria resta ben poco. E pensare che tutto ebbe inizio con un semplice “Ave”.

Quando nel 1517 Martin Lutero affisse le sue 95 tesi sul portone della chiesa di Wittenberg, non immaginava forse che tra i tanti effetti della sua ribellione ci sarebbe stata anche una drastica “potatura” del culto mariano. Eppure già nelle sue prediche del 1520-21 manifestava un crescente fastidio per quella che lui chiamava “idolatria mariana”, per quell’eccesso di devozione che sembrava oscurare la centralità di Cristo.

“La Chiesa ha posto Maria quasi sullo stesso piano di suo Figlio”, tuonava il monaco agostiniano, “attribuendole persino il potere di comandare a Cristo, come se le preghiere a lei rivolte avessero maggior efficacia di quelle indirizzate direttamente al Salvatore”. Non era un’esagerazione polemica. Nei secoli precedenti, la pietà popolare aveva effettivamente elevato Maria a dimensioni quasi divine.

Giovanni Calvino, dal canto suo, fu ancora più drastico. Nel suo “Trattato sulle reliquie” del 1543 irrideva alla moltiplicazione delle reliquie mariane: “Ci sono tante ciocche dei capelli della Vergine, tanti frammenti della sua veste, tanti suoi indumenti, che se li si riunissero tutti insieme formerebbero il carico di un grosso bastimento”. Con il sarcasmo che gli era proprio, aggiungeva: “e non esiste un luogo così oscuro che non vanti di possedere un pezzo del suo pettine o del suo fuso”.

Ma la storia, come sempre, è più complessa delle semplificazioni che ne facciamo. Lo stesso Lutero conservò una profonda venerazione per la madre di Gesù. Nel suo commentario al Magnificat del 1521 scrisse: “Maria non desidera diventare un idolo; lei fa di Dio l’unico e solo oggetto del suo canto, della sua lode e del suo amore”. Per il riformatore tedesco, Maria restava “la più benedetta fra le donne”, modello perfetto di umiltà e di fede.

Zwingli invece tagliò più netto: “Maria non deve essere invocata perché non è Dio e non può ascoltare le nostre preghiere”. E così, mentre nei paesi cattolici continuavano a moltiplicarsi santuari e pellegrinaggi mariani, nelle terre protestanti le statue della Madonna venivano rimosse dalle chiese, le feste in suo onore abolite, le preghiere a lei rivolte considerate superstizione.

Da dove nasce questo solco così profondo? Da una lettura diversa delle stesse Scritture. I protestanti sottolineano come nei Vangeli Maria compaia raramente e come Gesù stesso sembri talvolta prendere le distanze da lei: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” (Matteo 12,48). I cattolici ribattono citando il saluto dell’angelo (“piena di grazia”) e la profezia di Maria stessa: “D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata” (Luca 1,48).

Il grande storico Hubert Jedin, nella sua monumentale “Storia del Concilio di Trento”, ha ben descritto come la Chiesa cattolica, sentendosi attaccata, reagì accentuando ancora di più il culto mariano. L’effetto della Riforma fu paradossale: invece di moderare gli eccessi della devozione popolare, li amplificò. Nel Seicento e Settecento si moltiplicarono nuovi dogmi, nuove feste, nuove devozioni. La Madonna divenne simbolo e baluardo dell’identità cattolica contro l’eresia protestante.

Che ne è oggi di questa contrapposizione? Il XX secolo ha visto timidi tentativi di riavvicinamento. Il teologo protestante Karl Barth riconobbe che “il dissenso sulla dottrina mariana è il punto decisivo che divide le confessioni”. Ma ammise anche che “Maria è il modello di tutti coloro che ricevono la grazia”. Dal versante cattolico, il Concilio Vaticano II, nel capitolo VIII della “Lumen Gentium”, tentò di riportare la mariologia nell’alveo della cristologia.

Eppure le differenze restano. Nel 1950, quando Pio XII proclamò il dogma dell’Assunzione, i protestanti videro confermati i loro timori di una deriva mariana senza fondamento biblico. E quando nel 1997 un gruppo di cattolici lanciò una petizione per la proclamazione di un nuovo dogma mariano (quello di “Corredentrice”), il Consiglio Ecumenico delle Chiese espresse tutta la sua preoccupazione per l’ulteriore allargamento del fossato.

“Maria divide perché le si fa dire troppo o troppo poco”, ha scritto il teologo Bruno Forte. Ed è vero. Per i cattolici resta la “Mediatrice di tutte le grazie”, come la chiamava il cardinal Mercier; per i protestanti è semplicemente la madre terrena di Gesù, degna di rispetto ma non di culto.

Il ritorno della Vergine nei monasteri protestanti

Ma ecco che, come spesso accade, la storia ci riserva sorprese inaspettate. Proprio dal cuore del protestantesimo, in questi ultimi decenni, è riemersa una devozione mariana che sembrava definitivamente sepolta. Un ritorno silenzioso, quasi clandestino, nelle comunità monastiche nate in seno alle chiese riformate.

Prendiamo Taizé, in Borgogna. Qui, nel 1940, il pastore Roger Schutz fondò una comunità destinata a diventare un simbolo di riconciliazione. Forse non tutti sanno che Brother Roger, come amava farsi chiamare, nutriva una particolare devozione per la Madonna. “Maria è la trasparenza di Dio”, ripeteva ai suoi confratelli. E nella cappella della Riconciliazione, accanto alla croce, fa bella mostra di sé un’icona della Vergine. Nella liturgia di Taizé, i canti mariani sono tornati a risuonare, seppur con testi rigorosamente biblici.

Più sorprendente ancora è il caso della comunità di Grandchamp, in Svizzera. Queste monache riformate, ispirate dall’esempio di Taizé, hanno reintrodotto nei loro uffici la recita del Magnificat e la celebrazione dell’Annunciazione. “Maria è la nostra sorella nella fede”, ha dichiarato suor Pierrette, priora della comunità dal 1999 al 2010, “e noi protestanti abbiamo troppo a lungo dimenticato questa sorella”.

In Germania, la Communität Christusbruderschaft Selbitz, fondata nel 1949 nel cuore della Baviera, ha fatto di Maria un punto centrale della propria spiritualità. “Attraverso Maria”, scriveva la fondatrice Hanna Hümmer, “impariamo cosa significa essere totalmente disponibili a Dio”. Nelle loro meditazioni quotidiane, queste suore luterane rileggono i testi mariani dei Vangeli come modelli di sequela radicale.

Anche nel mondo anglicano, dove la devozione mariana non era mai del tutto scomparsa, si assiste a un rinnovato interesse. La comunità di Walsingham, nell’est dell’Inghilterra, è tornata a essere un importante centro di pellegrinaggio. Qui, nel 1061, secondo la tradizione, la Vergine apparve a Lady Richeldis de Faverches. Distrutto durante la Riforma, il santuario è stato ricostruito nel 1931 e oggi accoglie annualmente migliaia di pellegrini anglicani.

“Il ritorno di Maria nel protestantesimo”, come l’ha definito il teologo francese Neal Blough, “non è un semplice fenomeno di trasferimento culturale, ma il segno di una maturazione teologica”. In effetti, è proprio nei circoli teologici più avanzati che si è verificato questo ripensamento. La celebre teologa protestante Dorothee Sölle, in un saggio del 1993, ha scritto: “Abbiamo bisogno di Maria, non come idolo, ma come sorella che ci insegna a dire sì a Dio”.

E cosa dire delle comunità di Iona in Scozia, fondata nel 1938 da George MacLeod, dove la festa dell’Assunzione è tornata a essere celebrata, seppur reinterpretata in chiave ecumenica? O della comunità di Jesus Abbey in Corea del Sud, dove il pastore Archer Torrey ha reintrodotto l’Ave Maria nella liturgia quotidiana?

“La Madonna è troppo grande per essere lasciata ai soli cattolici”, ha dichiarato con una punta di provocazione il compianto pastore valdese Paolo Ricca durante un convegno ecumenico nel 2005. E ha aggiunto: “Dobbiamo riappropriarci di questa figura, liberandola dalle incrostazioni devozionali che l’hanno resa estranea alla sensibilità protestante”.

Ritorno alle fonti

Questo ritorno a Maria non è casuale. Coincide con un più generale riscoperta delle radici contemplative del cristianesimo. Quando il teologo Dietrich Bonhoeffer, dalla sua cella nel campo di concentramento nazista, scriveva che “il futuro della Chiesa sarà monastico o non sarà”, non immaginava forse che la sua profezia si sarebbe avverata in modo così letterale.

La comunità ecumenica di Bose, in Italia, fondata nel 1965 dal cattolico Enzo Bianchi, è diventata un punto di riferimento per credenti di tutte le confessioni. Qui, Maria è venerata come “prima discepola” e “icona della Chiesa”, in un linguaggio che può essere condiviso da cattolici e protestanti. “Maria è un bene comune”, sostiene Bianchi, “non un terreno di contesa”.

Nella Svizzera protestante, la comunità di Grandchamp ha introdotto nel 2010 una celebrazione mensile chiamata “Preghiera con Maria”. La superiora, suor Anne-Emmanuelle, ha spiegato: “Non si tratta di pregare Maria, ma di pregare con lei, di imparare da lei l’arte dell’ascolto e del consenso al progetto di Dio”.

Persino nelle chiese battiste americane, tradizionalmente le più refrattarie al culto mariano, qualcosa sta cambiando. Il teologo battista Steven Harmon ha pubblicato nel 2018 un sorprendente saggio intitolato “Ecumenical Mary”, dove propone una rilettura della figura mariana compatibile con la sensibilità delle chiese libere.

Come ha scritto il filosofo Jean-Luc Marion, “Maria rappresenta la possibilità per ogni credente di diventare dimora di Dio”. Una definizione che anche il più rigido calvinista potrebbe sottoscrivere.

Frontiere che si spostano

Che cosa comporta questa riscoperta mariana nel mondo protestante? Certamente non un ritorno alle pratiche devozionali del passato. Nessuna comunità protestante ha reintrodotto il rosario o le litanie lauretane. Si tratta piuttosto di un nuovo modo di guardare a Maria, più sobrio, più biblico, più legato alla sua funzione di testimone.

Ma è anche un segnale di quanto le frontiere confessionali si stiano spostando. Il teologo luterano Wolfhart Pannenberg ha scritto che “le divisioni del passato non corrispondono più alle realtà spirituali del presente”. E la Vergine Maria, da linea di demarcazione, sta diventando terreno d’incontro.

Nel 1999, la dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla dottrina della giustificazione ha aperto la strada a un dialogo più sereno anche su Maria. E nel 2004, il documento “Maria: grazia e speranza in Cristo”, firmato da anglicani e cattolici, ha rappresentato un passo avanti nel tentativo di trovare un linguaggio comune.

Nell’antica abbazia di Bec-Hellouin, in Normandia, ogni anno si tiene un convegno ecumenico sulla Vergine Maria. Qui, monaci cattolici, pastori protestanti e teologi ortodossi si confrontano su quella che viene chiamata “la più ecumenica fra le divisioni”.

Restano ovviamente le differenze. Nessuna comunità protestante accetterà mai i dogmi dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione. Ma la figura di Maria come “prima credente” e “modello di discepolato” può essere condivisa da tutti.

Come ha scritto Massimo Cacciari nel suo saggio “Dell’Inizio”, Maria rappresenta “la soglia, il passaggio tra l’umano e il divino”. Forse è proprio questa ambivalenza a renderla figura tanto contesa: troppo umana per essere divina, troppo divina per essere solo umana.

Il dibattito continua, intanto, fuori dalle aule teologiche e dalle chiese. Nell’arte contemporanea, la Madonna è diventata icona polisemica, utilizzata tanto per provocare quanto per riscoprire una spiritualità al femminile. Dal “Black Madonna with Child” della pittrice britannica Chris Ofili alle installazioni della messicana Margarita Cabrera, l’immagine mariana viene continuamente reinterpretata e attualizzata.

La storia ci insegna che i simboli religiosi sono i più difficili da condividere. La Vergine Maria rimane, dopo cinque secoli, una frontiera. Una frontiera che separa, ma che forse, proprio grazie a queste nuove esperienze monastiche ed ecumeniche, si sta trasformando in un ponte.