L’avesse detto: Qualità e deficit europeo. L’industria che innova distrugge quelle che non lo fanno

Siamo abituati a usare il termine “distruzione” in senso negativo. Una trentina di anni fa, l’americano Clayton Christensen formulò l’ipotesi dell’innovazione distruttiva, riferendosi inizialmente alle innovazioni tecnologiche. La nuova tecnologia distrugge quella vecchia, imprese obsolete muoiono a sfavore di nuove più efficienti. Negli anni la teoria è stata perfezionata considerando che l’innovazione, oltre che essere di tipo tecnologico, può riguardare i prodotti e addirittura l’intero modello di business.

Il nocciolo della questione è il rapporto tra le imprese che sono già presenti in un settore e i competitori che vogliono entrarci. Se l’innovazione tende ad attrarre nuovi consumatori, le imprese tradizionali non devono temere nulla e possono continuare a coltivare il mercato che hanno. Il fatto è che, però, certe innovazioni si sono dimostrate così dirompenti da destabilizzare interi settori produttivi e cambiare il modo stesso di fare economia per interi sistemi geografici.

L’innovazione digitale è un esempio di come la distruzione può essere dirompente in ogni settore produttivo, coinvolgendo tutte le imprese e masse di lavoratori. La necessaria transizione da un settore tradizionale a quello innovativo può essere però lunga e dolorosa. Se non c’è mobilità sociale e mancano opportunità per nuovi impieghi, i guai per chi perde il posto di lavoro possono essere terribili e non risolvibili nel breve periodo.

Un esempio. Se inizialmente Amazon sembrava rivolgersi a lettori nuovi, quelli che abitano lontano da una libreria e devono fare chilometri per comprare un libro, nel tempo Amazon è diventata una seria concorrente di tutte le librerie e ora anche dell’industria editoriale nel suo complesso.

Lo stesso vale per molti altri settori, dall’industria del turismo a quella dell’abbigliamento, dai dischi all’alimentare, e così via. Il mercato mondiale è un mercato anarchico, nel senso che non c’è chi può dettare regole accettate da tutti e i rapporti commerciali sono in balia del potere delle parti; potere di ogni tipo, economico, militare o culturale, con tendenza alla concentrazione nelle mani di poche imprese o peggio di una sola.

L’Europa ha praticato per decenni la via dell’egemonia culturale. Siamo antichi, abbiamo tradizione, qui si mangia meglio e ci si veste benissimo. Le regole che proteggono le produzioni europee sono quasi tutte fondate sulla difesa della “qualità”, compresa quella green, imposta per legge. Chi vuole vendere qui da noi deve rispettare le nostre norme di salubrità e di reputazione dei prodotti. Confidando su questa forza  della tradizione, gli europei – imprese e politica – hanno trascurato di fare innovazione, lasciando tutto in mano ad altri, agli Americani l’innovazione digitale, ai Cinesi l’innovazione cosiddetta green. Dopo avere perso tempo, possiamo solo rincorrere.

 

Gian Luigi Corinto, docente Geografia e Marketing agroalimentare nell’Università di Macerata, collaboratore Aduc