Confermata, dalla Cassazione, la condanna per omicidio colposo nei confronti di una agente della polizia penitenziaria addetta alla vigilanza a vista su una detenuta russa ricoverata nell’infermeria del carcere romano di Rebibbia con problemi psicologici che, la notte del 26 novembre 2004, si tolse la vita impiccandosi alla sponda del letto. Per sua stessa ammissione, l’agente si era allontanata dalla cella di Marina Kniazeva – che era l’unica ricoverata in quel reparto – e non aveva svolto il servizio di vigilanza in modo continuativo come era stato prescritto dalle disposizioni dei superiori mirate a scongiurare comportamenti autolesionistici. ‘L’omissione della condotta prescritta – sottolinea la Suprema Corte respingendo il ricorso dell’agente Cosmina R. – ha precluso, a monte, il tempestivo avvistamento della complessa manovra suicidiaria e, con essa, il conseguente dovuto intervento per scongiurare il fatale esito’. Il suicidio della detenuta russa sollevo’ interrogazioni parlamentari che chiedevano, all’allora Guardasigilli Roberto Castelli, informazioni su come mai avesse potuto verificarsi il suicidio di una reclusa guardata a vista. Con questa decisione della Cassazione è stato convalidato il verdetto emesso lo scorso 9 marzo dalla Corte di Appello di Roma.