Viviamo n una società dell’immagine che rifiuta il significato profondo dell’immagine quando le ricorda la sua fragilità e la mette di fronte al mistero della morte. La nostra prima pagina di ieri, con la foto del calciatore Piermario Morosini che cade in campo e lancia un ultimo sguardo sbarrato sul mondo, ha destato lo stupore di qualche anima bella. Alcuni hanno detto che è stata «una scelta forte», altri che non c’era «il rispetto per l’uomo», altri ancora che «l’informazione può permettersi tutto» e via così in una serie di lezioni oscillanti tra il moralismo e l’insegnamento pedagogico che niente hanno a che fare con il giornalismo e la forza della notizia. Racconto i fatti, quelli da cui parte qualsiasi buon cronista. Un atleta di 25 anni – che per un gioco beffardo del destino indossa la maglia numero 25 – muore su un campo di calcio. Nei campionati di serie superiore non accadeva dalla scomparsa di Renato Curi, centrocampista del Perugia, avvenuta durante la gara Perugia-Juventus, il 30 ottobre del 1977. Il Perugia è primo in classifica dopo cinque giornate, Curi è in campo dopo un infortunio. All’inizio del secondo tempo, alle 15.34, Curi muore stroncato da un infarto. È un dramma nazionale. La morte in campo. Trentacinque anni dopo la storia si ripete, un giovane che ha vestito la maglia della nazionale under 21, un ragazzo d’oro, giocatore del Livorno, si accascia sul prato di Pescara. Cade la prima volta. Cade la seconda volta. La terza volta non si rialza più. Le immagini fanno il giro del mondo. L’Ansa trasmette una foto che è il simbolo di questa storia. Un fatto eccezionale, un documento eccezionale. La foto va online, viene impaginata dai siti internet dei principali giornali (apriva la home page di Repubblica.it). È la metafora dell’inizio e della fine, ha la potenza evocativa di un quadro di Caravaggio.
Facciamo la riunione di redazione. Check della scansione delle notizie, ripasso delle ultime news e disegno della prima pagina. È l’ora del mio solito giro di opinioni con i colleghi, decidiamo il tipo di impaginazione e selezioniamo le immagini per la scelta finale. Giungiamo a una conclusione univoca: la foto del giorno è quella, è il simbolo di una giovane vita spezzata, il mistero della nostra esistenza, l’inspiegabile che si fa realtà in un campo di calcio, di fronte a migliaia di persone, alle telecamere che riprendono ogni secondo della tragedia. Nel frattempo le televisioni mandano in onda il video di Morosini che corre, cade, si rialza, cade e si accascia. La rete è invasa da decine e decine di immagini del giovane che esala il suo ultimo respiro. In mezzo al campo. Circondato dai compagni di gioco e dai medici. In barella con l’ossigeno. La nostra scelta resta ferma su quella foto perché ha i tre requisiti che ci guidano nel lavoro: qualità, intensità e verità. Visto, si stampi. Il giorno dopo si apre il dibattito e, francamente, ci stupiamo dello stupore di qualcuno. Il giornalismo funziona così, non siamo filosofi ma cronisti, ogni giorno in redazione facciamo scelte che – piaccia o meno – si confrontano con la realtà e non con un mondo immaginario dove tutto funziona secondo uno schema precostituito. La realtà non si può piegare ai propri desideri. Bella e brutta. Felice e infelice. Comoda e scomoda. Buona e feroce. Tutti i santi giorni ci facciamo i conti e ogni volta ci facciamo guidare da quella cosa chiamata «notizia». Non ci sono altri criteri per scegliere. Vale per i testi e per le immagini. Se un giornalista si fa suggestionare da altri criteri, finisce per confondere la realtà, cedere nel migliore dei casi all’ipocrisia, nel peggiore alla bugia. Quando sugli schermi dei computer piovono le immagini delle guerre, non esitiamo a pubblicarle per informare i nostri lettori. Quando il 9 maggio del 1978 il corpo di Aldo Moro fu ritrovato in via Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure a Roma, crivellato di colpi, nel bagagliaio di una Renault 4, la foto divenne il simbolo della ferocia delle Brigate Rosse. E i giornali la pubblicarono perché era il documento simbolico di quella storia, l’icona di quegli anni terribili della nostra Repubblica. Quando John Fitzgerald Kennedy il 22 novembre del 1963 fu ucciso a Dallas dai colpi di fucile di Lee Oswald, le immagini furono pubblicate sui giornali di tutto il mondo, le televisioni le trasmisero un numero infinito di volte. Era il simbolo di un’America che perdeva il suo presidente. Un evento storico che aveva la sua testimonianza nell’immagine di Jacqueline che tiene il corpo del marito, la testa rivolta all’indietro, senza più vita. Quando l’11 settembre 2001 due aerei di linea si sono conficcati nelle Torri Gemelle, abbiamo visto il video e le foto di «the falling man», l’uomo che cade, gettarsi dalle Twin Towers e precipitare a terra. Simbolo di un’America sotto attacco, fatto scartavetrato dalla cronaca, poi raccontato in un libro meraviglioso di Don De Lillo. Potrei andare avanti all’infinito. Sono regole che valgono per i fatti grandi e piccoli. I giornalisti sono testimoni del proprio tempo. E fanno un mestiere difficile perché ogni giorno si confrontano con la durezza della realtà e l’esposizione della verità. I fatti parlano da soli, ma poi vanno raccontati e impaginati. Le televisioni trasmettono il film drammatico di Morosini che corre e poi si accascia, le radio fanno collegamenti in diretta con l’uso del racconto orale, le agenzie mandano in rete i lanci della vicenda e le foto, i siti internet diffondono la notizia sulla rete e la «socializzano», i giornali approfondiscono e isolano le immagini simboliche «vestendole» con il reportage e il commento. Il mondo dell’informazione si muove con le sue regole e le scelte variano a seconda del mezzo e dell’audience. Non siamo ipocriti, trattiamo le notizie per quello che sono, non ci piacciono i trucchi, le scelte politicamente corrette che tradiscono l’assenza di carattere e il pensiero debole, la mancanza di un punto di vista. È paradossale che una società che ha vissuto in questi anni una battaglia politica fondata sul guardonismo e la distruzione della privacy, un condominio educato da molti cattivi maestri a guardare le vite degli altri dal buco della serratura, emetta gridolini ipocriti e esprima pensieri pelosi su una vicenda consumata davanti alle telecamere e ai flash di tutto il mondo. La triste vicenda di Morosini, la ripetizione dei suoi ultimi istanti di vita non sono solo il dramma di un giovane che muore, ma il contrappasso di una comunità che non sa più distinguere il testo e il contesto, il «guarda» voyeuristico dal senso profondo dell’immagine, il simbolico e il sacro dall’inutile, dal gossip, dal kitsch e dal volgare. I quotidiani sono immagine e testo, vanno letti entrambi perché sono sempre coordinati. L’immagine di Morisini in prima pagina era legata a un mio articolo che ne descriveva la potenza metaforica, la parabola, il dolore e la perdita. Ma una civiltà che «guarda» e non «legge», un mondo dove «bit» e «pixel» hanno sostituito il «testo» e la «foto», finisce per distruggere il significato, non comprendere e abbandonarsi allo strepito e all’invettiva, mentre Morosini non corre più e le sue foto vengono cliccate, guardate ma non lette, in un «commenta» e «mi piace» che diventa inesorabile perdita di senso. La sua tragica morte ci ha insegnato anche questo. Che gli sia lieve la terra.
Mario Sechi – Il Tempo