Il chirurgo ospedaliero che, dopo un intervento, indirizzi il paziente nel proprio ambulatorio privato per una visita post-operatoria a pagamento "viene a percepire un ingiusto vantaggio (da doppia retribuzione), con danno del paziente (che viene a versare un emolumento già compreso nel ticket)" e commette un abuso d’ufficio. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 40824 depositata oggi che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da un medico contro una sentenza di condanna pronunciata dalla Corte d’appello di Cagliari il 10 maggio 2011.
Il chirurgo – spiega la Cassazione rifacendosi alle sentenze di primo e secondo grado – ha invitato diversi pazienti, dopo le dimissioni dall’ospedale, a recarsi presso il proprio studio professionale per visite a pagamento dell’importo di 200 euro ciascuna, senza informarli della possibilità di ottenere la stessa prestazione direttamente in ospedale senza ulteriori spese. Ma cosí facendo si determina una "dolosa e funzionale carenza di informazione" ai danni del paziente e un "inammissibile frazionamento dell’intervento ospedaliero", che prevede l’attività chirurgica e la "successiva necessaria verifica dell’adeguatezza dell’intervento stesso, l’una e l’altra apprestabili nello stesso ambito".
Al chirurgo, stabilisce infatti la Suprema Corte, "compete l’obbligo di ‘concludere’ l’intervento professionale nella sede naturale, ospedaliera, e senza ulteriori esborsi economici non dovuti, a meno che sia lo stesso paziente che opti, ‘re cognita’", ossia consapevolmente, "per tale soluzione, volendo che l’autore della visita post-operatoria sia lo stesso medico che ha praticato l’intervento". Insomma – afferma la Cassazione, "il chirurgo era tenuto a definire il ‘rapporto terapeutico’ con il paziente all’interno della struttura ospedaliera in quanto, come ampiamente emerso dagli atti, la visita ‘post-operatoria’ faceva parte dell’accordo negoziale per cui era stato versato il ticket".