La cartina per la felicità: Le speranze di un prete

Ogni anno, alla quarta domenica di Pasqua (conosciuta pure come “la domenica del buon pastore”), la Chiesa celebra la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Il tema di quest’anno, “Le vocazioni segno della speranza fondata sulla fede”, mi sembra strettamente legato anche alle provocazioni che papa Francesco ha rivolto ai giovani il 24 marzo u.s. "E per favore non lasciatevi rubare la speranza, quella che ci dà Gesù".
Mi fermo ad analizzare brevemente come la speranza scaturisca da Gesù, “pastore autentico” che a differenza dei falsi pastori “offre” ordinariamente la vita per le sue pecore (cfr. Gv 10,11). La metafora è molto eloquente, perché rimanda a una scena semplice e profonda con la quale Gesù viene compreso immediatamente da tutti. Si tratta della gratuità con la quale il pastore si prende cura del suo gregge, consegnandogli la vita. Purtroppo, le mediazioni storiche del passo biblico “pascete il gregge di Dio che vi è stato affidato, di buon animo e non per vile interesse” (1 Pt 5,2) non sono sempre ispirate dall’offerta radicale fatta da Gesù.
E’ bene, però, non puntare il dito contro gli altri e tanto meno uscirne con il vento di terra da questi temi. Diciamo con onestà e carità che nella Chiesa sono (siamo) presenti uomini e donne, monumenti di carne dal cuore di pietra, sguardo duro di coloro che sanno e hanno sempre ragione, persone deputate a presiedere e fare giustizia, sicure di rimettere tutto e tutti in ordine, per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Vi sono pure, mutamente operanti (come la pecora che senza belare si fa portare al macello, cfr. Is 53,6), dei pastori veri, quali risonanze immediate della gratuità evangelica.
La “consegna” operata da Gesù (“agnello e pastore” secondo Ap 7,17 ) verso i suoi discepoli aiuta a “rileggere” il disagio di numerosi confratelli che per dignità non vogliono donare nemmeno le lacrime a prelati controllori, padri così poco padri, pastori così poco pastori.
Conosco dei preti che, ripetutamente presi in giro dai superiori con promesse da marinaio, in silenzio offrono a Dio le loro lacrime, perle preziose per le quali hanno “venduto” tutte le proprie certezze e continuano a rimanere saldi nella speranza di tempi migliori.
Parlando con un confratello mi sono arricchito della sua riflessione, circa il proprio rapporto con Gesù: ” Chi sei Tu – si chiedeva – che mi ridoni vita ogni giorno attraverso il soffio del tuo spirito e la melodia sconvolgente del dono della tua carne? Chi sei tu chinato a contemplare i fiori del campo vestiti di bellezza irripetibile, a ricordarmi che ai tuoi occhi valgo molto più di loro? Chi sei tu che hai messo a tacere l’orgoglio del mio cuore, i sintomi della pigrizia, dell’egoismo e della presunzione, padroni di sogni incompiuti?”.
Questi interrogativi hanno a che vedere pure con la mia esperienza e mi fanno ricercare nuovi orientamenti comunionali – certo non esaustivi – che attingono alla Parola di Dio per illuminare l’attuale contesto ecclesiale.
L’inizio della mia indagine si rifà all’esperienza del Risorto con i suoi discepoli, attorno alle sponde del mare di Tiberiade di cui parla Gv 21,1-19. In tale brano vi sono due aspetti inscindibili per cogliere l’identità e il ruolo dei pastori.
Il primo aspetto consiste nell’accogliere l’amore del Signore e “ricambiarlo”. Il pastore è un innamorato di Dio, vale a dire una persona immersa totalmente nella logica del dono: “Pietro, mi vuoi bene?”. “Sì, Signore, tu che conosci tutto (soprattutto “di che siamo plasmati”, cfr. Sal 103, 14) sai [perché] ti voglio bene” (Gv 21,17). Il “perché” – presente nel testo latino – (“tu cognoscis quia amo te”) è la motivazione fondamentale di una scelta che segna l’intera vita di chi, scoprendosi peccatore, si gioca tutta l’esistenza con il Signore, senza rimpianti, perché Lui resta sempre vicino…anche nei giorni di foschia e di tenebre durante i quali è difficile scorgerlo.
La seconda prospettiva fa cogliere come questa identità non può essere vissuta in un contesto privatistico, bensì in una comunità che ha la missione di tirar fuori dagli abissi del male i fratelli che vi sono incappati. Non si tratta di semplice filantropia, ma di un servizio da espletare come fedeltà concreta al Suo mandato.
Fin qui in estrema sintesi le provocazioni che vengono dalla Parola.
Purtroppo oggi si assiste a un andazzo ecclesiale che definire “paradossale” sarebbe eufemistico.
Non entro nelle questioni personali di confratelli e superiori (seppur tali situazioni hanno un peso notevole), ma oggettivamente devo rilevare un gap fra il “centro” e la “periferia”, o – secondo un’espressione sessantottina – fra il “vertice” e la “base”, o – per dirla in linguaggio sindacalista – fra la “stanza dei bottoni” e la “produzione”.
La responsabilità di tale frattura è da dividere equamente fra le parti, le quali se dovessero ancora rimandare la decisione di trovare il tempo per capire bene le dinamiche sotto traccia di questo divario, rischiano il monologo e quindi l’incomprensione totale.
Torno alla metafora di Gv 21,1-19, dalla quale emergono – a mio modesto avviso – le “strategie” che possono far uscire dal pantano.
Il tono della domanda di Gesù a Pietro (“mi vuoi bene?”) intende far prendere coscienza a quest’ultimo di valutare bene la portata della sua risposta, se ne è veramente convinto. E Pietro, che poco prima aveva preso coscienza della sua “nudità”, afferma che per quanto limitato, egli avrebbe voluto e cercato il bene del Signore.
Penso che il punto di partenza per venirsi incontro sia dato da ciò: ciascuna delle parti prenda coscienza della propria “nudità”. E’ duro dover ammettere il proprio limite, ma diventa il primo passo per poter rivestire – in un secondo momento – i panni di coloro che credono e vogliono il cambiamento.
Se da un lato questo passaggio esclude qualsiasi velo di alibi con il quale coprire i misfatti del clero, dall’altro offre la possibilità di porsi alcune domande critiche
Che bisogno c’è di camuffare abilmente la propria “nudità” per tenere a distanza di sicurezza tutto e tutti e continuare sulla falsariga del “divide et impera”?
Perché ostinarsi a prendere nella rete i pesci apparentemente più tenaci per far balenare – secondo la tecnica dello specchietto delle allodole – che così facendo la comunione presbiterale risulta veramente di grande respiro?
A chi serve “mettersi in proprio” se il ruolo affidatoci dal Signore lo si può vivere stando insieme sulla stessa barca, con compiti diversificati, in vista di una pesca abbondante solo se rimaniamo uniti a Gesù come la vite ai tralci (Gv 15,5)?
Mentre le risposte a tali domande potrebbero sembrare retoriche o scontate, è più che urgente indagare le profonde motivazioni personali del malessere pastorale.
Ciò presuppone una conoscenza diretta e reciproca, senza intermediari, i quali spesso recitano il gioco delle parti così bene a tal punto da ingannare sia il vertice (sicuro che di queste persone si può fidare) sia i confratelli (fatti oggetto di cocenti delusioni perché si erano precedentemente illusi). Far piazza pulita di negoziatori, personificazioni viventi dell’aquila bicefala (in senso simbolico), potrebbe essere un antidoto ai fraintendimenti.
E in tale contesto di smarrimento (Mt 9,36 parlerebbe di “pecore senza pastore” ) i cristiani hanno una certezza: Cristo Risorto. Papa Francesco dice che su questo fatto (= la risurrezione) si fonda la speranza che – aggiungo io – nemmeno i preti (oltre ai giovani) possono lasciarsi rubare.
Non saranno certo le “bocciature pastorali” o la “mancate promozioni” a un livello più alto della gerarchia ecclesiastica, né i ripetuti “litigi fra comari” che potranno cancellare dalla vita dei preti la speranza di cieli nuovi e terra nuova.
Per tutti sia di consolazione la fede sincera della Maddalena, che dopo un tortuoso e impegnativo percorso di ricerca, acclama: “Cristo, mia speranza è risorto!” .

Ettore Sentimentale