IL VERO RISORGIMENTO RACCONTATO DA MALEDETTI SAVOIA

Riprendo le mie letture storiche definiti di “revisionismo”, o di “contro storia”, comunque sia sono testi che finalmente hanno scoperchiato molte verità che per troppo tempo sono state silenziate dalla storiografia ufficiale. Tra i tanti libri, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, che hanno avuto il merito di aver scritto, con documenti alla mano, la verità sul nostro cosiddetto risorgimento c’è sicuramente “Maledetti Savoia”, di Lorenzo Del Boca, edito da Piemme nel 1998. Un testo con 25 pagine di note, che ha avuto un certo successo, ripubblicato più volte. I libri di un certo spessore fanno riferimento a questo lavoro, io ho letto, l’edizione pocket del 2002. Il libro parte subito senza introduzione con il falso storico de l’incontro di Teano.
Intanto il mitico incontro non si svolse a Teano, ma a Vairano, e fu una scena goffa e impacciata. Il pittore Pietro Aldi, ha dovuto faticare molto per far apparire il re Vittorio Emanuele II una figura agile e slanciata sul cavallo. Il sovrano piemontese, in realtà, era sgraziato, curvo sulle spalle, goffo in sella, più largo che lungo. Stessa operazione per Garibaldi, che a causa delle sue croniche artriti cervicali aveva un fazzolettone al collo, tipico delle massaie. Segue il capitolo su Vittorio Emanuele II, “re galantuomo”. Lorenzo Del Boca fa a pezzi tutta la retorica costruita intorno al re piemontese e ne fa una descrizione rigorosa e tragicomica, come quella dei suoi rapporti intimi: “ha lasciato l’impronta della sua testa sui frontali dei letti che frequentava maggiormente, perché mentre faceva l’amore, si appoggiava con la fronte”. Ormai è notorio che il re galantuomo amava trascorrere il suo tempo conquistando donne, gradiva in particolare, “le contadinotte, ardite e le popolane compiacenti. I letti a baldacchino li sostituiva volentieri con la paglia dei fienili. Li non aveva bisogno di mascherare quello che era: schietto e persino grossolano, prepotente come uno smargiasso, fanfarone come capitan Fracassa. E non aveva bisogno di sforzarsi per parlare italiano: il dialetto piemontese andava benissimo”. Vittorio Emanuele si rivelò un campione di scappatelle. Si invaghiva di tutte senza innamorarsi di nessuna. Maria Adelaide, sua moglie, sottostava alla volontà del marito. Interessanti i racconti di Del Boca sui due figli illegittimi, Vittoria, che “arrivò all’altare con qualche carro di abiti, con una collezione di gioelli il cui valore fu stimato vicino alle 300.000 lire, mezzo milione in dote e altre 200.000 lire per la liquidazione…”Anche l’altro figlio illegittimo, faceva sfoggio “delle ricchezze che gli erano arrivate derubando le casse dello Stato, e accendendo un sigaro con biglietti da 100 lire”. Quando si sposò il padre lo trattò bene come la figlia, sempre con i soldi degli italiani.
Il principale impegno del re era di preoccuparsi degli affari suoi, disinteressandosi di quelli del governo. Anzi gli importava più del Piemonte che del resto d’Italia, infatti s’incoronò re Vittorio Emanuele II, in continuazione col regno di Piemonte. Il terzo capitolo è dedicato a Garibaldi, un ‘onesto babbeo’ al comando dei Mille. Maxime du Camp, uno scrittore francese, non riconobbe a Garibaldi alcuna intelligenza politica, lo definì: “spirito miope e ingenuo, incapace di illuminazione e di prospettiva”. Denis Mack Smith lo considerò, “rozzo e incolto”. Anche se il merito principale che gli attribuiscono è quello di dare una credibilità pubblica all’idea stessa del Risorgimento e soprattutto convincere gli statisti che non si trattava di una mera conquista di territori da parte di casa Savoia. “L’eroe dei due mondi fu lo ‘sponsor’ del tricolore nazionale”. Ben presto fu circondato fin dall’inizio da un alone di leggenda capace di ampliare ogni azione e di inventarne qualcuna. In pratica fu una specie di Che Guevara “ante letteram”, destinato a soccorrere le rivoluzioni del mondo. Anche se a volte mescolò patriottismo a puri interessi di bottega, ma lui era convinto di combattere per la giustizia. Già in America Latina, Garibaldi divento un’icona rivoluzionaria, costruita a tavolino da alcuni intellettuali, così la sua leggenda del “rosso malpelo”, ben presto venne sfruttata in Italia. Interessante la storia di Anita, la sua donna, che fu letteralmente sottratta al suo legittimo marito, subito soppresso. A proposito di donne anche Garibaldi ne era appassionato. Ecco la descrizione di Del Boca: “Alternava le cariche a cavallo con quelle sotto le gonne, con identico spirito di conquista. Non stette a badare se erano mogli di amici e non si preoccupò che gli venissero attribuiti una dozzina di figli fra legali, mezzi legali e illegittimi”. Naturalmente il nome di Garibaldi è legato alla spedizione dei Mille, gente variegata che secondo Del Boca, “(…) stavano scappando da qualcuno o da qualcosa: mogli abbandonate, amanti infuriate, figli illegittimi, conti da regolare con la giustizia e non sempre per ragioni politiche”. Una specie di armata “Brancaleone”, che “sarebbe stata massacrata dall’esercito borbonico, considerato tra i migliori e meglio preparati, e di gran lunga più agguerrito e addestrato delle mille camice rosse”. Ormai gli storici che si occupano dell’argomento sono concordi a scrivere che l’impresa garibaldina è riuscita perché conveniva all’Inghilterra e alla mafia meridionale che hanno finanziato il movimento insurrezionale. Non c’entrava l’unità del Paese, il tricolore, ma soltanto l’interesse inglese e naturalmente quello piemontese. E quindi Del Boca vede un vero e proprio copyright inglese, nell’impresa garibaldina. “La sconfitta dei Borboni non fu provocata dallo slancio dei garibaldini né dal valore delle loro armi. Fu letteralmente comprata a peso d’oro”. In pratica 2.300 ufficiali borbonici traslocarono, “si trasferirono a ranghi compatti sotto la croce dei Savoia”. Addirittura “sembrò un trasloco: burocratico e scontato”. Tutto questo ebbe il costo di circa 29 miliardi di lire, denaro raccolto dai “fratelli” delle logge massoniche scozzesi e americane. “Un fiume carsico di quattrini sciolse velleitari propositi di resistenza, infranse certezze consolidate, sconvolse il senso dell’onore e incoraggiò giravolte politiche radicali”. In buona sostanza, si è trattato della “più capillare opera di corruzione mai immaginata in tempo di – presunta guerra”. Peraltro le coste meridionali dell’Italia erano troppo importanti per il commercio inglese nel Mediterraneo dopo l’apertura del canale di Suez. Intanto due episodi, hanno preparato l’imminente fine del regno delle Due Sicilie: il congedo dei valorosi mercenari svizzeri a Napoli e l’attentato a Palermo al capo della polizia borbonica Salvatore Maniscalco. Il libro passa alla cronaca del farsesco sbarco dei vascelli Piemonte e Lombardo a Marsala, praticamente, una colonia inglese, e quindi un porto sorvegliato dalle loro navi. Secondo l’autore di “Maledetti Savoia”, in quei momenti di pantomima,“una cannonata, sparata al posto giusto, avrebbe chiuso la partita”. Bastava che una nave borbonica avesse intenzione di farlo.

DOMENICO BONVEGNA
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