Prima di continuare il commento del libro di Pappalardo, “Il mito di Garibaldi” Sugarcoedizioni, è giusto ribadire che far conoscere la verità su come è stato fatto fuori il Regno di Francesco II e successivamente come è stato “pacificato” il Meridione d’Italia, non vuol dire promuovere una“operazione nostalgia”, né tantomeno attentare all’unità nazionale. Pertanto il coinvolgimento del governo sardo nell’operazione conquista del Sud è stato sostenuto dagli stessi protagonisti come Nino Bixio, che ha ricordato in Parlamento, l’8 settembre 1863, i meriti patriottici del vice ammiraglio Persano: “Quando noi eravamo a Palermo (mi rincresce che debbo dir cose che dovrebbero forse rimanere un po’ più nel silenzio, ma poiché si citano fatti, io debbo contrapporne altri)…ebbi l’incarico più volte di andare dal vice-ammiraglio Persano per cose che erano abbastanza delicate e difficili, giacchè, sapendosi, si sarebbero scoperti gli aiuti che si ricevevano dal Governo…”. Anche La Farina nella seduta della Camera del 16 giugno 1863, sosteneva che: “(….) il partito capitanato dal conte di Cavour aiutò la spedizione con tutti i mezzi: e mentre l’Europa grida (…) mentre tutta la diplomazia non ha che un grido di riprovazione contro quest’atto ultrarivoluzionario, il conte di Cavour continua a dare aiuti alla spedizione di Sicilia”. Inoltre, ormai è ammesso da tanti storici seri, che la partecipazione popolare alla conquista del regno è limitata e comunque si esaurisce non appena sono chiari gli scopi politici — l’annessione dell’ex Regno di Sicilia al costituendo Regno d’Italia — e socio-economici, cioè la salvaguardia dell’ordine esistente, come risulterà chiaro a Bronte, dove lo stesso Garibaldi autorizza la strage, ordinando al governatore di Catania d’inviare“ […] immediatamente una forza militare atta a sopprimere li disordini che vi sono in Bronte che minacciano le proprietà inglesi”. Intanto Francesco II, mal consigliato, concede un’amnistia per i crimini politici, autorizza la sostituzione della bandiera gigliata con il tricolore rivoluzionario e nomina ministro di polizia il massone Liborio Romano (1793-1867). Sul continente l’avanzata garibaldina è favorita dai grandi proprietari terrieri, spesso usurpatori di beni demaniali ed ecclesiastici, che di fronte all’impotenza delle autorità borboniche difendono i propri possedimenti. I soldati napoletani, spesso abbandonati dai comandanti, tentano di raggiungere le proprie case o il re Francesco II che, per evitare danni alla popolazione civile, ha lasciato la capitale e si è ritirato a Gaeta con la regina Maria Sofia di Wittelsbach (1841-1925). Garibaldi entra a Napoli applaudito dal popolo radunato dalla camorra. Si conclude così, l’episodio più celebrato del Risorgimento, l’unico che potrebbe rivendicare i caratteri di epopea popolare, si configura dunque sostanzialmente come un’operazione di pirateria al servizio dell’idea unitaria e degli interessi britannici — come una riedizione in scala più ampia, tutta da meditare in sede storiografica, delle imprese uruguayane di Garibaldi —, compiuta da un gruppo di uomini armati non aventi alcuna legittimazione giuridica e condotta contro le più elementari norme del diritto internazionale, con l’obbiettivo di ribaltare le istituzioni legittime di uno Stato sovrano da sempre riconosciuto dal consesso delle nazioni e benedetto dalla suprema autorità spirituale. Cavour dopo il successo della spedizione garibaldina, ingiunge al Papa di congedare i ventimila volontari cattolici, accorsi dall’Europa e dal Canada per difendere la Santa Sede, e senza attendere la risposta pontificia ordina al generale Enrico Cialdini (1811-1892) d’invadere gli Stati della Chiesa. L’esercito papalino è sconfitto a Castelfidardo, nelle Marche, e Ancona si arrende dopo un bombardamento navale proseguito anche dopo la resa. I montanari marchigiani e umbri insorgono contro gli invasori, che tuttavia non si arrestano e invadono, da nord, il Regno delle Due Sicilie. Cavour decide per l’immediata annessione del Mezzogiorno dopo un plebiscito, svoltosi con voto palese e sotto il controllo della camorra. Il 26 ottobre Garibaldi "consegna" il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e si ritira a Caprera. Intanto Francesco II il 13 febbraio 1861 è costretto ad abbandonare la fortezza di Gaeta e parte per l’esilio. Subito dopo inizia la resistenza popolare contro gl’invasori che si estende all’intero regno, bollata però come "brigantaggio". Con l’intento dichiarato di non fare prigionieri, secondo gli ordini del generale Enrico Morozzo della Rocca (1807-1897), si scatena una durissima repressione. Migliaia di soldati irriducibili del Regno delle Due Sicilie subiscono la deportazione nei campi di concentramento piemontesi di San Maurizio Canavese e del forte di Fenestrelle, molti la fucilazione. La "normalizzazione" sabauda passa anche attraverso la spoliazione economica: le spese sostenute per l’invasione sono poste a carico dei napoletani, s’inasprisce la pressione fiscale, le industrie meridionali perdono le commesse statali, viene epurato il personale amministrativo e politico ed è introdotta la legge sarda del 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi. Si apre la Questione Meridionale. Studi non viziati da pregiudizi e stereotipi, ormai hanno messo in discussione l’impostazione tradizionale della cosiddetta questione meridionale, soprattutto quella di tipo economico, è chiaro che “alla data dell’Unità non vi fossero differenze tra le due aree del paese”, mentre negli anni successivi all’unificazione, “(…)il declino del Mezzogiorno è un processo continuo fino alla metà del Novecento(…)” Pappalardo sul fenomeno del brigantaggio, parla di contrasto, di due mentalità, di due differenti impostazioni culturali e cita Galli della Loggia, che vede nella questione meridionale,“una diversità etico-antropologica radicale, che diventa un problema per l’identità nazionale italiana. Mentre l’antropologo e sociologo Carlo Tullio Altan, vede addirittura una “reazione di rigetto della società meridionale”, fino ad arrivare ad “uno scontro di civiltà”. Il 17 marzo è proclamato a Torino il Regno d’Italia, così scrive Giovanni Cantoni:“la nazione italiana, prima una nella fede e nella diversità, viene unita nell’errore, cui si accompagna l’imposizione spesso crudele di una uniformità che è piuttosto rivoluzionaria che piemontese. Cadono tutte le Case regnanti, vengono disperse tutte le classi dirigenti che hanno servito la cristianità a diverso titolo fin nelle terre più lontane, le differenze regionali e storiche sono interamente bandite, la religione e i suoi ministri perseguitati”.
DOMENICO BONVEGNA